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I racconti del Commissario – Roland, milite ignoto della F1

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Li avevo notati subito quei due anziani signori qualche fila davanti a me. In mezzo alle decine di persone sedute sembravano un po’ spaesati, ma mi colpivano per la loro discrezione. Era il 30 aprile del 2014 e nella sala briefing dell’Enzo e Dino Ferrari era appena iniziato l’incontro per ricordare Roland Ratzenberger a vent’anni esatti dalla sua scomparsa. Le mille iniziative di quel fine settimana a due decenni di distanza dal tragico Gran Premio di San Marino del 1994 erano incentrate sulla gigantesca figura di Ayrton Senna, come era ovvio che fosse. Solo in quella occasione si ricordava colui che ventiquattro ore prima della tragica fine del campione brasiliano mi aveva fatto scontrare con la dura realtà della morte sulle piste. Avevo dieci anni e quel casco bianco-rosso che si muoveva inanimato nel relitto della Simtek fu per me la prima immagine di un dramma in gara, per di più sulla “mia” pista. Non potevo sapere che purtroppo sarebbe stato solo l’antipasto di uno dei fine settimana più neri della storia delle corse e gli eventi successivi avrebbero quasi messo in ombra la fine di Roland. Al quale mi affezionai subito.

 

Aveva la stessa età di Ayrton quel ragazzo austriaco che stava tentando di qualificarsi al suo terzo gran premio ma una storia ben diversa. Una vicenda fatta di passione che lo aveva portato a vivere da nomade tra Gran Bretagna e Giappone per correre in Formula Ford, Formula 3 e Formula Nippon, fino a giungere alla 24 ore di Le Mans disputata per cinque volte. Le sue vittorie restarono poche ma restò anche intatto il suo sogno: arrivare al mondiale di Formula 1. Alle soglie dei trentaquattro anni si presentò la grande occasione con la neonata Simtek Grand Prix, che esordì insieme a lui nel “Grande Circus” al via della stagione 1994. Ma il sogno della massima formula per Roland si mescolò presto all’incubo delle piccole scuderie. Un inferno caratterizzato dalla cronica mancanza di risorse e dalla terribile tagliola della qualificazione che quell’anno negava la partenza in gara ai due piloti peggio classificati nei turni di prove ufficiali. Nelle prime due gare lo scontro per Roland finì in pareggio: non qualificato a Interlagos, al via e buon undicesimo ad Aida grazie alla sua conoscenza del tracciato giapponese nuovo a molti colleghi. Imola era un crocevia fondamentale: o qualificato o fine della festa. Non poteva permettersi di sbagliare Roland o il suo sogno avrebbe rischiato di finire dopo i titoli di testa. Non poteva permettersi di perdere tempo, nemmeno per fermarsi ai box dopo una “scordolata” che sembrava innocua ma si sarebbe rivelata gravissima per la sua ala anteriore una volta giunto ad oltre trecento all’ora in prossimità della curva Villeneuve. Il carico dell’aria in velocità portò al distacco del flap destro rendendo di fatto la Simtek un proiettile ingovernabile lanciato dritto verso il muretto esterno. Un impatto solo, tremendo, che pose fine ai sogni di Roland. Per sempre. Relegandolo alla figura di “milite ignoto” della Formula 1.

 

Mi tornavano alla mente tutti questi ricordi mentre l’incontro si stava concludendo con la premiazione di una bambina il cui disegno a ricordo di Roland aveva vinto un concorso indetto tra le scuole imolesi. In quel momento capii chi fossero i due distinti signori davanti a me. Si chiamavano Rudolf e Margit, erano venuti appositamente da Salisburgo senza conoscere una sola parola che non fosse in lingua tedesca per ricordare il figlio Roland. In vent’anni avevano scelto di vivere il loro grande dolore con dignità e discrezione, senza mai voler apparire o puntare il dito contro la squadra, la pista o la Formula 1. Avevano perso il figlio e nulla avrebbe potuto loro restituirlo, ma trovavano conforto nel ricordarlo attraverso ciò che lui aveva più amato ed incontrando appassionati e tifosi che giungevano a far visita a Roland nel cimitero di Maxglan, alle porte della loro città. Furono loro a premiare quella bimba che nemmeno era nata quando Roland perse la vita. Ma non si limitarono a questo. Vollero abbracciarla, parlarle come due nonni affettuosi pur non potendo esprimersi in italiano e le regalarono qualche soldo come un piccolo dono ad una nipotina adottiva. Quei pochi euro che, seppi poi, vennero spesi dalla bimba per acquistare un mazzo di fiori che portò lei stessa nel punto in cui la monoposto di Roland finì la sua corsa. Nel mondo dell’automobilismo si usa spesso dire – a ragione – che ogni tragico incidente lascia in eredità un’innovazione che incrementa la sicurezza dei piloti. Il sacrificio di Roland invece ci ha lasciato l’esempio umano meraviglioso di due anziani signori di nome Rudolf e Margit.

 

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