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Beccantini – La Virtus, lo scudetto e il cassetto dei ricordi

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InCronaca - Unibo


A tre settimane dalla vittoria del suo sedicesimo scudetto, abbiamo chiesto a Roberto Beccantini, una delle firme più autorevoli del panorama giornalistico calcistico italiano, di aprire il cassetto dei ricordi e di svelare la sua anima virtussina. Ecco cosa ci ha voluto raccontare.
 
Lo scudetto della Virtus è un cassetto che si apre, è la polvere di vecchie carte che, invece di farsi nebbia, si fa nostalgia. E spinge ad aprirne altri: di cassetti, di ricordi. Bologna. Gianfranco Civolani. Gianfranco Lombardi. Se sono giornalista, lo devo al primo: un maestro. Se sono virtussino, lo devo al secondo: un toscano che lasciava fuochi, non cenere.
Con il tempo, e lontano da Bologna, città-mamma come poche – se non scappi subito, non scappi più: io scappai a nemmeno 20 anni – la cronaca mi ha allontanato dalla storia. Mi hanno salvato la passione e la memoria. Salire sul carro non è mai un esercizio nobile. Ma io non sono mai sceso. Ho le prove. Ho gli amici. Ho i ritagli. 
Quando frequentavo il Palasport di piazza Azzarita, Virtus e Fortitudo ingaggiavano derby feroci. Sputare sangue non era un semplice slogan: era un obbligo quasi morale. Non dimenticherò mai, delle Aquile, gli artigli di Gary Baron Schull, un americano di quelli tosti, tutto orgoglio e hybris, il talento alla periferia (e comunque, sempre a portata di rimbalzo).
Cito alla rinfusa. C’erano Dan Peterson e Aza Nikolic, che un giorno accettarono un caffè a casa mia, nel cuore del cuore della Bolognina. C’era Peppino, il tifoso dotto e tagliente che teneva pulpito e confessionale nel suo negozio di bigiotteria in via Clavature. Mi sedevo senza  sapere come mi sarei alzato: se assolto o condannato. Insieme, per un po’, curammo l’ufficio stampa del comitato regionale della Fip, uno spasso. C’era l’avvocato Gianluigi Porelli, un dirigente che anticipò la stagione dei grandi manager. C’era Amato Andalò, il guardiano dell’arena, con quel grembiule nero che lo faceva tanto bidello, e invece era l’anima, non solo la carne vigile, di una tana assurta a simbolo cittadino. Uno dei più cari, uno dei più romantici. E ci sarebbe stato Manu Ginobili, argentino di Bahìa Blanca, poi esule a San Antonio, bianconeri anche lì, nel Texas degli speroni e della saga di Alamo. 
Inviato di «Tuttosport», fui testimone della Coppa Italia alzata a Vicenza il 12 maggio 1974, la domenica in cui l’Italia sceglieva il divorzio. Il primo trofeo di Din-Don-Dan. Quindi, Ettore Messina. Ero passato al calcio, ci si incontrava a Bologna, durante le mie «toccate e fughe». Mi forniva le cassette di «certi» derby, uno su tutti: quello conquistato, in Europa, a suon di triple.
Ero appena sbarcato all’aeroporto di Goteborg, per un’amichevole fra Svezia e Italia di calcio, mi informarono via telefonino del tre più uno di Sasha Danilovic contro la Fortitudo: pareggio, supplementari, scudetto. Lo comunicai a Gianluca Pagliuca, virtussino «lui quoque», stavamo aspettando i bagagli, facemmo la ola sul tapis roulant. Non era proprio così, ma avete presente «L’uomo che uccise Liberty Valance»? Quella frase lì, dico: «Questo è il West, signore. Dove se la leggenda diventa realtà, si stampa la leggenda». Meno male. Fino a quando, come in occasione degli ultimi playoff, è la realtà a diventare leggenda (quattro a zero; ripeto: quattro a zero all’Olimpia Milano), e allora non c’è neppure bisogno di andare al cinema.
Ci siamo già.

 

 

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