BasketFortitudo Bologna
Fortitudo Legends – Ruben Douglas
Il tiro che fermò il tempo, il cuore di un popolo: Ruben Douglas, l’eroe silenzioso che consegnò l’eternità alla Fortitudo.
Vince Bologna. Vince la Fortitudo. E’ lo scudetto, è lo scudetto dell’Aquila.
Ci sono canestri che valgono punti. Altri che valgono vittorie. Poi ci sono quelli che valgono una vita, una città, un ricordo destinato a non scolorire mai. Ruben Douglas ha segnato il canestro, forse, più importante della storia della Fortitudo Bologna.
Era il 16 giugno 2005, un giovedì sera. Al Forum di Assago si giocava gara 4 della finale scudetto tra Fortitudo Bologna e Armani Jeans Milano. Una serie nervosa, combattuta, tesa. La Fortitudo era avanti 2-1, ma Milano aveva spinto la serie al limite. Si arrivò agli ultimi secondi punto a punto, con l’Aquila sotto di uno. Douglas ricevette palla, si alzò da tre punti in equilibrio precario, con l’istinto del predestinato. La retina si mosse, il replay confermò: canestro buono. La Fortitudo era campione d’Italia per la seconda volta nella sua storia. Il suo ultimo scudetto. Con il tiro più iconico.
Un canestro non basta a definire una leggenda. Ma oggi quell’instant replay esiste nelle stanze della memoria collettiva come un dipinto sacro, è molto più di un episodio sportivo: è un simbolo. Ruben Douglas è diventato leggenda in un secondo e mezzo, ma per capirlo davvero bisogna guardare oltre quell’istante. Perché quell’uomo arrivato da Panama, con passaporto statunitense e un passato da capocannoniere NCAA, ha incarnato perfettamente l’anima Fortitudo: intensa, viscerale, irregolare, ma capace di toccare il cielo.
Classe 1979, cresciuto cestisticamente negli Stati Uniti tra Arizona e New Mexico, Douglas era approdato in Europa all’inizio degli anni 2000. Giocò prima a Napoli, poi a Treviso, prima di scegliere Bologna nel 2004. Non era ancora una stella affermata, ma portava con sé il fuoco di chi sa di poterlo diventare. Alla Fortitudo, trovò il contesto perfetto: un ambiente caldo, esigente per certi versi, passionale, che riconosce il talento e lo esalta. In maglia biancoblù esplose definitivamente. Non era solo un realizzatore. Era un interprete elegante della pallacanestro, capace di colpire in ogni situazione: dalla distanza, in penetrazione, in lunetta. Ma soprattutto, era un giocatore capace di prendersi responsabilità. Di assumersi il peso del momento. Di farlo suo.
La stagione 2004/2005 fu un’opera corale memorabile, con un roster ricco di talento (Basile, Lorbek, Vujanic) e la guida di Jasmin Repeša in panchina. Ma quel tiro, quel tiro lì, poteva portare una sola firma. Dopo una regular season di altissimo livello, la Fortitudo volò ai playoff e si trovò davanti in finale l’Armani. Douglas fu protagonista di una serie intensa e spettacolare, culminata in un trionfo indimenticabile.
Eppure, la storia tra Douglas e la Fortitudo fu breve. Quell’unica stagione bastò per scolpire il suo nome nella pietra. Dopo lo scudetto, Douglas proseguì la carriera tra Valencia, Mosca, Panionios e Roma. Poi nel 2019, a quattordici anni di distanza, Douglas tornò al PalaDozza per una serata celebrativa organizzata dalla società. Standing ovation, cori, lacrime di commozione. Bastava guardarlo negli occhi per capire che nemmeno lui aveva dimenticato. La Fortitudo era ancora casa sua. E lo sarà per sempre.
Ruben non fu solo un campione. Fu un interprete ideale dello spirito Fortitudo. Un eroe silenzioso, che non cercava riflettori, ma li accendeva quando contava davvero. Non si mise mai al centro, ma finì al centro della storia. Un uomo che, con un solo tiro, ha scritto la parola “eternità”. Oggi il suo nome vive ovunque, tra le mura del PalaDozza. Nei racconti di chi c’era e lo ha visto dal vivo. Nelle immagini che ancora girano sui maxischermi. E soprattutto, in ogni giovane tifoso cresciuto con la leggenda dell’uomo che la storia la scrisse.
Per sempre Ruben, per sempre numero 20.
Continua a leggere le notizie di 1000 Cuori Rossoblu e segui la nostra pagina Facebook
