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Lo sport non è per tutti

Se la passione diventa violenza, muore l’anima dello sport.

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Lungo la superstrada Rieti-Terni, poco dopo le 22.00 di domenica sera, il pullman che riportava a casa i tifosi del Pistoia Basket è stato colpito da una sassaiola. Una pietra ha sfondato il parabrezza, centrando in pieno il conducente, Raffaele Marianella, sessantacinque anni, morto poco dopo per le ferite riportate. La squadra, reduce dalla vittoria in trasferta contro la Real Sebastiani Rieti, stava rientrando in Toscana.

Le prime ricostruzioni parlano di un assalto probabilmente orchestrato da un gruppo di pseudo-tifosi. Non una rivalità storica, non una tensione particolare. Solo, si dice, vecchi rancori e “gemellaggi incrociati poco graditi”. Basta questo, oggi, per giustificare un’imboscata. Gli inquirenti stanno vagliando le telecamere, raccogliendo testimonianze, cercando di dare un volto alla codardia. Ma la verità, quella che pesa più di ogni indagine, è che qualcuno ha deciso che la vita di un uomo valeva meno di uno sfogo, meno di un gesto di odio gratuito, meno di un pretesto per sentirsi “ultras”.

Una morte sbagliata. Ingiusta. Non la prima vittima innocente di una violenza che diventa scopo, e il basket soltanto un pretesto. E così, ancora una volta, lo sport è diventato teatro di guerra, campo di scontro per chi scambia l’appartenenza per possesso, la rivalità per odio, la passione per arma.

Lo sport non è per tutti. Non c’è spazio nè dentro i palazzetti, nè fuori, per discriminazioni, per il razzismo, per chi utilizza violenza e trasforma la curva in trincea. Lo sport non appartiene a chi usa la bandiera come scudo per nascondere la propria codardia. È per chi sa perdere, per chi applaude anche l’avversario, per chi capisce che la competizione è un linguaggio di rispetto. Tutto il resto è criminalità, e va trattato come tale. Perché dietro quella pietra non c’è solo la mano di un violento, ma anni di tolleranza e di indifferenza di fronte ad atti considerati un eccesso di passione. Ma nessuno sport è davvero al riparo, se la società che lo circonda ha smesso di educare.

Ogni volta che uno stadio, un palazzetto o una curva diventa un terreno di odio, lo sport arretra. Ogni volta che chi commette atti simili viene definito “tifoso”, lo sport perde la sua anima. Un tifoso ama, sostiene, si arrabbia, soffre. Ma conosce la misura. Un delinquente no.

C’è una vergogna silenziosa che attraversa Rieti, Pistoia, e ogni città italiana che oggi guarda sgomenta questa storia. Una vergogna che non si può cancellare con un minuto di silenzio o un lutto al braccio. È la vergogna di chi si riconosce, almeno in parte, in quella complicità quotidiana fatta di indifferenza, di scrollate di spalle. Perché la violenza non nasce in una notte, ma cresce nel silenzio di chi la tollera.

E allora sì, forse la parola giusta è davvero vergogna. Vergogna per uno sport che troppo spesso si dimentica di essere cultura, educazione, comunità. Ma anche speranza: quella che, di fronte a un’ingiustizia così disumana, qualcuno cominci davvero a dire basta.

Perché quando un uomo muore così, non è un fatto di cronaca. È un fallimento collettivo. E la lezione, questa volta, non possiamo permetterci di dimenticarla. Lo sport non è per tutti. Non per chi odia, non per chi distrugge. Lo sport è per chi sa ancora conoscere il limite. E forse (oggi più che mai) dovremmo ricominciare da lì.

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