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“Scusate ma oggi si gioca in sei”: omaggio a Paolo Barlera

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Il 20 Dicembre 2009 al PalaScapriano di Teramo si gioca Teramo-Napoli. Nel prepartita la tribuna dedica questo pensiero a un grande campione: “Paolo Barlera uno di noi”. Semplici parole che fanno capire quanto il popolo della pallacanestro, e non solo quello, fosse legato a quel gigante di 216 centimetri che tre giorni prima si era dovuto arrendere alla malattia. Il palazzetto si lascia andare ad un lungo, interminabile applauso: quello fu il tributo della mia città e del mio palazzetto a un grande uomo prima che a un grande giocatore. Era l’applauso per ricordare chi ha lottato contro la malattia, chi l’ha affrontata a testa alta senza mai perdere quel suo sorriso che lo contraddistingueva. Era l’applauso per chi ha amato la pallacanestro, per chi ha lottato per tornare in campo a qualsiasi costo, per chi ci ha regalato un preziosissimo esempio di vita. Era l’applauso che un palazzetto intero, me compreso, tributava a un ragazzo umile che inseguiva i suoi sogni sul parquet. Era semplicemente l’applauso per Paolo Barlera, immenso uomo e grande campione. Credo che dalle sue parti, ovunque sia, da qualche tempo a questa parte, Paolo sia un po’ meno solo. Con lui c’è Gabriele Fioretti e sono sicuro che ne stanno combinando delle belle insieme, sono sicuro che stanno ridendo insieme, ricordando i tempi di Biella, quando condividevano le vittorie, ma anche i duri momenti.

Sono molto legato a Paolo e alla sua storia e, per questo, per ricordarlo come merita, ho coinvolto in questo articolo Marco Sanguettoli, Luca Bechi e Giampiero Canneddu.

Paolo è cresciuto nelle giovanili della Virtus Bologna e il suo mentore è stato proprio Marco Sanguettoli, che oggi lo ricorda così:  “Ho allenato Paolo per diversi anni nel settore giovanile della Virtus, ho cominciato ad allenarlo nell’Under 13.  Il problema, chiaramente, era supportare il fatto che fosse un ragazzo fuori dalla norma perché era già molto grande per quell’età. Devo dire che non ha mai dimostrato particolari complessi o fastidi per il fatto che fosse così più grande degli altri, però sicuramente per quello che riguardava il nostro staff bisognava farlo sentire come tutti gli altri: intervenire anche in senso negativo, sgridandolo e correggendolo quando sbagliava. Chiaramente bisognava anche  gratificarlo molto quando riusciva in cose che, sicuramente per lui erano più difficili che per altri, soprattutto nei primi anni, come palleggiare con tutte e due le mani o fare un canestro da vicino. Queste sono problematiche notevoli per quelli della statura di Paolo, che neanche ci possiamo immaginare. Mi ricordo i primi allenamenti quando gli facevo fare magari tutto il campo in palleggio e anche  dei cambi di mano, sotto le gambe o dietro la schiena. Per lui erano ostacoli molto più grandi che per gli altri,  e ricordo la fatica e quasi “l’odio” che provava per questo allenatore che lo costringeva a fare delle cose per lui cosi difficili. Poi, però nel giro di due tre mesi aveva già automatizzato il gesto e riusciva a farlo come gli altri e si vedeva la soddisfazione di aver raggiunto questo obiettivo.  L’obiettivo principale è stato fargli amare la pallacanestro, farlo divertire in modo che non abbandonasse perché magari si potesse sentire inadeguato. Era un ragazzo con capacità motorie notevoli ed era anche coordinato. Nelle partite era sempre protagonista, si è sempre guadagnato la stima e la fiducia dei compagni e di noi allenatori, è sempre stato un giocatore importante, anche nelle selezioni nazionali”. Sanguettoli ha voluto ricordare anche due partite in cui Paolo fu protagonista: “La finale scudetto del 1999 quando vincemmo il titolo Under 17 (allora si chiamavano Cadetti): eravamo a Bormio e giocavamo contro Udine. Paolo fece più di 20 punti e risultò l’assoluto protagonista di quella gara, in cui, tra l’altro, giocava contro Zacchetti. Era una squadra particolare la nostra, avevamo le famose due torri, c’era anche David Brkic con lui, un ragazzo di 210 centimetri. Voglio ricordare anche tutto il campionato europeo che fece a Zara, con l’ Under 18: fu inserito nel quintetto ideale, come miglior pivot della rappresentativa. Fece anche un partita di semifinale memorabile: perdemmo contro la Croazia, ma lui mise a referto tanti rimbalzi e tanti punti. Tra le altre cose, in quella nazionale giovanile allenata da Renato Pasquali, io e Luca Bechi eravamo gli assistenti”.

Proprio Luca Bechi, suo allenatore nei due anni a Biella, ha voluto dedicare questo ricordo a Paolo:“L’ho conosciuto quando era ancora ragazzino, perché facevo parte del progetto degli azzurri delle nazionali giovanili e nel 2000 a Zara giocammo i campionati europei. Si vedeva già li che era un grande giocatore, era uno dei prospetti più interessanti d’Europa non solo d’Italia. Quello che colpiva di lui era l’esempio: non amava dire tante parole, era una persona che dimostrava con i fatti e quindi con il suo impegno quotidiano quanto tenesse alla pallacanestro e come era giusto approcciarsi ad essa. I ricordi legati a Paolo sono tanti, ma mi piace citarne due in particolare: il primo è legato al suo ritorno alla Virtus da giocatore. Quando eravamo insieme a Biella, giocammo a Bologna, e lui uscì in mezzo ad una standing ovation del pubblico. Credo che per lui fu una grande vittoria: essere tornato a casa sua, con lo status che aveva sempre sognato, ma è stata una vittoria anche per me che vedevo la gioia negli occhi di Paolo, e in tutti quegli che gli volevano bene e lo applaudivano. L’altra partita che voglio ricordare, è l’ultima della regular season della stagione 2006/2007, quando noi giocammo ad Avellino e lui fu uno dei giocatori determinanti per la vittoria. Quella fu una partita importantissima, perché vincendo quella partita guadagnammo i playoff”. Paolo della Virtus fu anche il capitano, il primo dell’era Sabatini, di quella che allora si chiamava FuturVirtus. Quella fu una grande soddisfazione, come ci dice ancora Sanguettoli: “Era un atleta promettente e di livello, un punto di riferimento per i compagni e una persona vera. Fu una grande  soddisfazione vedere che era stato nominato capitano. Questo successe quando la malattia si era già manifestata la prima volta, ma sembrava che le cose fossero andate a posto. Paolo ha sempre lottato e ha cercato di vivere una vita normale, anche dal punto di vista della pallacanestro, che era diventato il suo lavoro”. Meraviglioso anche il ricordo che Luca Bechi gli dedica in chiusura di intervista: “I due anni con Paolo, a Biella, rappresentano per me un’esperienza incredibile e indimenticabile. Quando lui è venuto da Bologna, c’era la possibilità di dare una chance a un ragazzo e a un giocatore che aveva vissuto grandi problemi.  All’inizio è stata molto dura, si è veramente sacrificato in modo incredibile, ma sono arrivate anche grandi soddisfazioni. La cosa che mi fa venire ancora i brividi se ci penso è lui che mi ringraziò perché mi disse che io lo avevo sempre trattato da giocatore, da persona normale, con la durezza giusta e senza discriminazioni. Desiderava essere come gli altri e io credo di aver fatto questo per lui. Mi ringraziò proprio perché, nell’esperienza biellese, l’ho trattato come gli altri e questa parità era la sua soddisfazione”.

Con i ricordi di Sanguettoli e Bechi, non poteva mancare quello di Giampiero Canneddu:

Chiedete a un biellese qual è stato il suo pomeriggio più doloroso al palazzetto da quando esiste Pallacanestro Biella. Ne citerà due. E nessuno dei due ha a che fare con la certezza matematica della retrocessione, con il saluto a un ciclo di più di dieci anni di serie A. Quella sera ci furono applausi, pianti e giri di campo con i saluti, l’ultima pagina di un capitolo che finisce e che ci è piaciuto tanto. Ma non dolore. Quello ha raggelato le anime e riempito gli occhi di lacrime quando è stato il momento di salutare Paolo Barlera e Gabriele Fioretti. Cioé il giocatore che a Biella era tornato in campo, dopo aver stoppato il tiro a colpo sicuro di una malattia infame come il linfoma di Hodgkin. E il general manager che non era a bordo parquet il giorno in cui Biella ha vinto il primo trofeo della sua storia, una Coppa Italia di Lnp, perché gli avevano appena diagnosticato un tumore. Il 17 dicembre 2009, il primo schiaffo dal destino. Paolo Barlera aveva passato due stagioni a Biella, riuscendo anche a sfidare la sua Virtus Bologna in un quarto di finale playoff portato fino a gara-5. Poi il ritorno a casa, il silenzio e la scomparsa dai parquet, senza abbastanza notizie (perché Paolone portava con sé una riservatezza inviolabile, insieme a quei 216 centimetri che gli facevano sfiorare le porte con la testa) per capire se il silenzio fosse un cattivo segno. Biella scoprì che lo era una mattina, dall’annuncio che arrivò con il passaparola da Bologna. La malattia era tornata all’attacco e non ci fu verso di stopparla un’altra volta. Pianse a lungo la città chiusa e riservata come lui che lo aveva adottato (e per questo Paolone avrebbe voluto farla diventare la sua casa, una volta smesso con la pallacanestro). Pochi giorni dopo, la domenica di un Biella-Pesaro, la maglia numero 19 venne ritirata per sempre: ora è appesa al soffitto del Forum, ma più grande ancora della canotta oversize è la scritta dietro i tifosi rossoblù, che hanno dato il nome “Barlera” alla loro curva. Chiacchierare di lui, mesi dopo quella giornata triste, significava rendersi conto della traccia che era riuscito a lasciare nella vita di molti, in questa città che ha un orso come simbolo, ma che sotto la pelliccia e la scorza spessa, ha un cuore che sa accogliere e commuoversi. Sara, la sua fidanzata che a Biella è rimasta, è la depositaria di mille aneddoti: dalla loro prima sera insieme in città, con Paolone che, ansioso di farle vedere che era un bel posto, invase la zona a traffico limitato in auto e si beccò una supermulta, alla felpa tripla XL che ruppe il filo dello stendibiancheria perché, zuppa dopo il bucato, pesava troppo, fino all’estate tra il primo e il secondo anno di contratto passata quasi tutta in città perché ci stavano bene e passeggiare essendo notati (2,16 lui, 1,75 lei) era inevitabile, ma era bello farlo senza essere fermati a ogni passo da un fan invadente. La domenica dell’addio, Sara parlò al microfono, di fronte a un palazzetto in lacrime, e riuscì a trovare un messaggio di speranza. «Paolo non ce l’ha fatto, ma ci sono molti altri che questa malattia la vincono». E l’applauso coprì ogni altra voce e i singhiozzi di molti. A pochi passi da Sara e dal microfono Gabriele Fioretti si copriva il viso con le mani. Il suo primo anno a Biella coincise con l’ultimo di Paolo Barlera. Bastò per creare un legame forte tra due anime sensibili e due caratteri riservati. E quando, proprio un anno fa, quarto anniversario della morte di Paolone, condividemmo i nostri ricordi su quel giorno triste, scoprii che avevamo qualcosa in comune: ricordavamo perfettamente dove eravamo quando arrivò quella notizia. Io al lavoro, a Milano, raggiunto da una delle breaking news di un sito web di pallacanestro mentre avevo la faccia tuffata dentro il computer. Lui, la sera prima, a cena con la fidanzata di allora in un ristorante giapponese. Quando arrivò il messaggio sul telefonino (“Paolo non è più con noi”), fuggì in bagno a piangere. Quello scambio di confidenze arrivò nei giorni in cui Biella incrociava le dita e si dava da fare per un bambino ammalato di tumore, costretto a lunghe cure e a soggiorni con la famiglia a Firenze, con la squadra e il mondo della pallacanestro in prima fila. «Ho paura» svelò Fioretti, sapendo che nessuno avrebbe accettato a cuor leggero un altro finale triste. E poi aggiunse: «Ci si domanda quanti di questi groppi in gola e quanti di questi magoni un cuore/persona normale può contenere». Era il dicembre 2013. All’inizio di marzo 2014, una domenica in cui Biella rimontò negli ultimi cinque minuti da un -19 a un +1 in trasferta, arrivò la notizia della guarigione di quel bimbo. E fu gioia vera, e sollievo, condivisa nel bus che riportava a casa la squadra dalla lunga trasferta. Pochi giorni dopo, Gabriele Fioretti non partecipò alla trasferta di Rimini dove arrivò la vittoria della Coppa Italia. Disse che era colpa di “qualcosa che mi porto dietro e dentro da un po’ di tempo”. Quel “qualcosa” era un tumore. Impossibile non pensare a Barlera quando chiamava la sua malattia “problemi ematici, problemi seri”. E mentre ci si pensa rieccoci, inevitabilmente, costretti ad affrontare il groppo in gola e il magone…

Grazie a Luca Bechi, Marco Sanguettoli e Giampiero Canneddu che hanno reso possibile questo articolo.

Ciao Paolone, questo è per te.

foto: Virtus.it

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