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7 Giugno 1964 – “Storia RossoBlù dalla nascita fino all’ultimo scudetto” – 11 Mag

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44 – Quando Morandi voleva conoscere “Pascòt”

Racconta Italo Cucci, grande custode di storie rossoblù, che un giorno alla redazione di Stadio gli si presentarono due ragazzotti destinati a fare carriera. Quello che ancora pochi conoscevano si chiamava Lucio Dalla, e oggi siamo qui a rimpiangerlo. L’altro aveva iniziato a farsi largo nel mondo della canzone, facendosi “mandare dalla mamma a prendere il latte”. Erano giovani e pieni di speranze, e amavano il Bologna. Erano lì per chiedere al giornalista di portarli a conoscere i loro idoli. Quello del latte, Gianluigi Morandi in arte Gianni, veniva da Monghidoro e aveva una fissa: conoscere “Pascòt”, il suo campione.

Non era l’unico, Gianni Morandi, a voler bene ad Ezio Pascutti. Bologna si era innamorata di questo ragazzo dal gol facile, uno che viveva il calcio in anticipo sui tempi, talmente in anticipo che a volte faticava a farsi capire dagli stessi compagni. All’inizio era stato complicato. Lui, voluto da Gipo Viani, si era portato dietro da Mortegliano, orgogliosa terra friulana, un carattere schivo e apparentemente spigoloso. E poi c’era questa fretta, questa rabbia dentro che a volte lo faceva correre troppo oltre la squadra. Bei gol, ma anche svirgolate clamorose. Qualche fischio. Ma poca roba, solo un modo di studiarsi prima di capirsi per sempre. Una città innamorata di Ezio, lui innamorato della città. Tanto da non lasciarla più.

In rossoblù Ezio arrivò nella stagione 1954-55, ad appena diciassette anni. Per viverci un’intera carriera, fino al 1969: 294 partite e 130 reti, senza nemmeno calciare un rigore. E tra poco racconteremo il perché. Un ragazzo chiuso, grintoso, quello che arrivò a Bologna. Alle spalle un’infanzia dura, e due fratelli che stravedevano per lui, portati via troppo in fretta dal destino: Enea, il maggiore, costretto a emigrare in Canada per lavorare e poi rapito da un male incurabile; Paride annientato dalla guerra e dalla prigionia in Germania. Ezio, il ragazzino, mise in fretta gli aculei contro un mondo che cercava di dargli schiaffi. Cresciuto col pallone nella testa, capì subito che Bologna era la grande occasione e ci si buttò con coraggio.

“Ascoltai i consigli di Enea. Mi diceva: calcia di sinistro, impara perché dopo Carapellese in Italia un’ala sinistra vera non si è più vista. Strada facendo ho incontrato il mio mentore, Gipo Viani. Fu lui a volermi a Bologna. Mi ero fatto notare nel Pozzuolo e nel Torviscosa, ero veloce e segnavo a raffica. Arrivai qui e non dimenticai le buone abitudini. Anche se all’inizio non fu semplice, perché la mia rapidità mi portava anche a sbagliare occasioni ottime, e non fui subito capito”.

Ezio entrò in fretta nella mentalità dei bolognesi, pur mantenendo qualcosa del suo rigore e del suo orgoglio di “furlàn”. Gli restò quel carattere mai docile, per il quale ha anche pagato più del dovuto, in certe occasioni. Come il 13 ottobre del ’63, giorno in cui una semplice espulsione diventò un caso nazionale, e Bologna seppe stendere un’ala protettrice sopra il suo bomber.

“Quell’episodio mi ha perseguitato. Urss-Italia a Mosca. Finì 2-0 per loro, ma in quel momento avevano appena segnato il primo gol. Dubinski, il difensore che mi marcava, mi arrivò da dietro mentre ero lanciato a rete, con un falllo cattivissimo. Io mi ero appena ripreso da uno dei miei infortunii al ginocchio. Non ci vidi più e lo presi per il collo. Roba leggera, lui fece parecchia scena. Ma diventò un caso politico: era la prima sfida in trasferta coi russi, una decina di parlamentari italiani in tribuna, la stampa mi mise in croce. Non ci furono squalifiche dall’Uefa, ma da allora per anni in ogni stadio italiano venivo accolto a fischi, quasi come un traditore della patria. Dovevo mettermi i tappi nelle orecchie per non sentire. Ma i fischi non mi avrebbero mai piegato: sono stati gli infortunii a farmi dire basta, nel 1969”.

Di quei 130 gol ricorda il più bello, che per lui non è quello della famosa foto di Parenti in cui anticipa Tarcisio Burgnich in tuffo.

“Quello è un bel ricordo, perché Tarcisio è stato l’avversario più duro. Un compaesano, dal mio paese natale al suo ci sono meno di venti chilometri. In campo parlavamo in dialetto e litigavamo in continuazione. Però quando venne a Bologna da tecnico mi chiamò a fare l’osservatore. Il compagno più importante, invece, è stato Giacomo. Se ho segnato tutti quei gol, il merito è anche suo. Il più bello, però, lo feci contro il Genoa, su cross a rientrare dal fondo di Maraschi. Una meraviglia, solo che quel giorno non c’era nessuno a immortalare il momento. La storia dei rigori mai tirati? Ne sbagliai uno in Coppa Italia, contro l’Udinese: mi feci la nomea e non ne tirai più. Quando ti “battezzano” è brutto, è come la storia che sarei stato un attaccabrighe in campo: sono molte tredici espulsioni in quindici anni?”

Ezio sorride. A Bologna ha le sue strade, il suo percorso, la sua gente. Per tutti è rimasto “Pascòt”, come lo chiamava Morandi. L’ala sinistra. Unica, inimitabile.

 

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