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7 Giugno 1964 – “Storia RossoBlù dalla nascita fino all’ultimo scudetto” – 20 Apr

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41 – Quel gran genio di Gino Cappello

Certi campioni restano stampati nella memoria a dispetto di risultati, cifre, statistiche. Un esempio? Gino Cappello, fuoriclasse splendido finito dentro un Bologna mediocre. Peggio: il Bologna del dopoguerra, costretto a vivacchiare mentre nella testa dei tifosi erano ancora impresse le gesta, relativamente recenti, di quello che aveva fatto tremare il mondo. Contrappasso beffardo. Eppure questo padovano alto e allampanato, naso che definiremmo “importante” e voce flebile e acchittata, è stato un Dio dei campi di pallone. Col suo carattere fatto di lune imprevedibili, che gli faceva alternare partite della vita ad altre in cui si assentava letteralmente dal campo, croce e delizia del popolo rossoblù, ha spesso contribuito a levare il Bologna dagli impicci, in quegli anni di passione e purgatorio. Nils Liedholm, uno che di fuoriclasse ne aveva incrociati nella sua lunga carriera, da giocatore prima e da tecnico poi, non se lo tolse mai dalla mente. Per lui era stato il più grande calciatore italiano. Come per tanti di quelli che lo hanno visto giocare, o svegliarsi all’improvviso nel cuore di una partita abulica per regalare quei “cinque minuti” di grande calcio che da soli valevano il prezzo del biglietto.

A Bologna lo chiamavano “Capèo”. Attaccante completo, in grado di giocare prima punta o mezz’ala, forte di un bagaglio tecnico incredibile e di piedi fatati, alla faccia di chi proclama che quelli dei pedatori di classe devono essere minuscoli. I suoi erano in proporzione all’altezza. Lunghi. E magici, comunque.
Aveva iniziato nella sua città, nel Padova in Serie B, spaccando il mondo. In due stagioni, 60 partite e 39 reti. E un vero record nella seconda, il ’39-40, quando andò in campo 28 volte e segnò 29 gol. Lo volle il Milan, dove si trovò a giocare con Boffi e con un Beppe Meazza in fondo alla carriera. O dove, per dirla tutta, non si trovò. Coltivando quella capacità di estraniarsi dalle partite che sarebbe diventata un tratto ricorrente del suo essere in campo, anche a Bologna, e di cui lui stesso non capiva il motivo. A Bologna però venne di corsa, nella stagione ’45-46, dopo aver giocato ancora qualche partita in prestito nel suo vecchio Padova, in tempo di guerra. E qui diventò l’idolo delle folle. Era potente, tecnicamente insuperabile, in vantaggio enorme sui giocatori della sua epoca. E nelle giornate giuste, che poi non erano nemmeno così poche, diventava un’iradiddio. Il grande giornalista Alfeo Biagi, che gli fu amico, batetzzò quella che secondo lui fu la sua miglior partita: doppietta-capolavoro contro l’Inghilterra, con una Nazionale B in cui accanto a lui giocavano Giampiero Boniperti e Benito Lorenzi. Era il 10 maggio 1950.

In Nazionale Cappello giocò per la prima volta il 22 maggio 1949, contro l’Austria. Un azzurro malinconico: era la prima Italia messa in campo dopo la tragedia di Superga. L?anno dopo fece parte della spedizione mondiale in Brasile, e contro la Svezia incappò in una delle sue giornate no e non toccò quasi palla. Quattro anni più tardi, altro Mondiale sfortunato, in Svizzera. Cappello presente, a 34 anni suonati. Quello fu il primo Mondiale in cui i giocatori avevano il numero sulla maglia. Sulla schiena di “Capèo” campeggiava un 10. In tutto, 11 partite azzurre, con tre reti segnate. Anche qui, come nel Bologna, visse anni bui, di ricostruzione e risalita. Elargendo solo a sprazzi la sua grandezza assoluta. “Gino Cappello era un autentico genio del calcio”, ha scritto Adalberto Bortolotti, uno che di calcio ne ha visto, masticato e profondamente capito, “dotato da madre natura di tutte le qualità per risultare un fuoriclasse epocale. Le sfruttò al quaranta per cento, a essere larghi”.

Sia come sia, Bologna seppe innamorarsi del campione. E lui la ripagò con undici anni di onorata milizia, da quel 1945 con ancora i graffi della guerra addosso fino al 1956, quando accanto al lungo e taciturno genio del pallone era ormai sbocciato e cresciuto un ragazzo destinato a scrivere pagine di storia rossoblù (spesso le più difficili) da giocatore e da tecnico, Cesarino Cervellati. “Capeo” aveva giocato in rossoblù con Alex Pilmark e Ivan Jensen, aveva tenuto a battesimo le gesta di un altro veneto come lui, Gino Pivatelli da Sanguinetto. Se ne andò a chiudere la carriera a Novara, un anno appena per poi tornare in fretta in città, nella sua casa in via Toscana, a calciare palloni nei tornei amatoriali, forse anche con più determinazione di quando giocava sui campi di Serie A. Aprì anche una tabaccheria in via Castiglione, dopo aver dato il suo nome, ai tempi d’oro, ad una marca di palloni che rotolò sui campi di Serie A.

Uno così, “Capeo”. Parole poche, tanto che quella voce flebile la sentivano in pochi, anche tra i compagni di squadra. Eppure sapeva farsi intendere. E ci fu una volta, nel luglio del ’52, che lo fece fin troppo bene, almeno a quanto raccontò Walter Palmieri, ragioniere per professione e arbitro per hobby, che si trovò a dirigere la sfida tra Bar Otello e Bar San Mamolo al leggendario “Palio Calcistico Petroniano”, torneo estivo a scopi benefici in cui le squadre rappresentavano i rioni cittadini, e che spesso registravano la presenza di campioni da Serie A. Gino Cappello, quell’anno, giocava per il Bar Otello. E Palmieri assicurò, dopo essere stramazzato a terra a dieci minuti dalla fine di quell’incontro, che era stato proprio il campione, arrabbtiato per una decisione discutibile, a metterlo ko con una spinta. Aggiungendo, sempre secondo la versione dell’arbitro-ragioniere, anche qualche ceffone. Cappello ammise la spinta, spiegando che era arrivata per la concitazione di una fase di gioco, ma il direttore di gara finì al Rizzoli con una distorsione alla caviglia e più o meno due settimane dopo la Figc squalificò a vita il campione. Seguirono appello alla giustizia ordinaria, con tanto di assoluzione, e “riduzione della pena” anche da parte di quella ordinaria. Di fatto, Cappello restò fuori una stagione, il ’52-53, riprendendo il suo posto in quella successiva, proprio per fare da chioccia a “ragazzi” come Pivatelli, Valentinuzzi, Bonafin nella truppa guidata da Gipo Viani, e guadagnandosi anche la seconda convocazione mondiale con l’Italia. Gli andò peggio a carriera finita da tempo, quando, dirigente del Genoa, fu accusato di tentata corruzione e di nuovo ardiato. Da quell’affare si dichiarò sempre estraneo, ma sta di fatto che da quel giorno la tabaccheria di via Castiglione, gestita insieme alla moglie Iva, divenne il suo mondo. E il calcio, che gli doveva tante magìe, restò un ricordo.

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