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Amarcord – Dedicato a Tazio che segnò alla Fiorentina sotto la neve

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“Il biondo” correva e la sua criniera brillava al sole. Il biondo era un punto di forza, una bandiera, un simbolo. 
Il biondo era di Moglia, anno di nascita il 1947 come il suo grande amicone Savoldi, ma aveva scelto di essere bolognese. 
E del bolognese ha incarnato per tutta la sua vita le migliori qualità: la bonomia, la gentilezza, la disponibilità. 
“Il biondo” era Tazio Roversi. 
Se n’è andato a soli 52 anni in una sera d’autunno. Non ha visto il nuovo millennio. 
Come calciatore prima e come uomo poi si è però fatto apprezzare e ammirare da tutti. Ed è stato coraggioso migliore in campo nella partita più difficile che si possa giocare: quella della sopravvivenza. 

Sono stato probabilmente il primo a chiedere un autografo al giovanissimo tizio Roversi, approdato in prima squadra poco dopo lo scudetto. Capitò a margine di una partita della coppa De Martino, il campionato Riserve che si giocava di mercoledì o giovedì, all’allora Comunale. Per noi bimbi la festa era quella di poter sedere in tribuna a un prezzo stracciato, perché l’ingresso costava un prezzo unico in tutti i settori. E così sedevi nelle poltronissime, e di solito, a fine primo tempo, arrivavano i “draghi” della prima squadra, quelli che avevano voglia di vedere i compagni che, magari dopo un infortunio, per ritrovare il ritmo partita, giocavano appunto copn le Riserve. 
Era un campionato-2 che appassionava: chissà perché non si sia più giocato…
Beh, quel pomeriggio di Primavera, in tribuna si affacciarono Faustino Turra, che era una mezzala con licenza di fare gol, L’elegante mezzala Mario Fara, toscano, rilevato dal Bari, riserva di lusso di un Bologna stellare. E poi c’era quel ragazzino di cui tutti dicevano un gran bene, cresciuto nella Giovanile. Capelli a spazzola, tagliati cortissimi. Era Tazio. Nato a Moglia, gli avevano dato il nome della leggenda di quelle parti, Nuvolari. 
Ma lui preferiva correre dietro a un pallone. Mi avvicinai e gli chiesi l’autografo. Rimase stupito, mi firmò la cartolina. La foto ritraeva i campioni d’Italia. Tornai al mio posto e un’amica della mia tifosissima zia mi chiese di chi avessi avuto la firma. Le dissi: di Roversi. Mi guardò schifata. Ma come? Chiedi la firma anche ai ragazzetti, esclamò sdegnata. 
Divenni rosso rosso… ma il tempo è galantuomo e a distanza di anni avrei voluto sventolare quella cartolina davanti alla signorina Di Bello, si chiamava così, per dirle: guarda un po’ che carriera ha fatto il ragazzetto!
In campo me lo ricordo rincorrere Gigi Riva, difensore arcigno Tazio, ma leale. Mai ha fatto ricorso a cattiverie, non ne era capace. 

Me lo ricordo segnare un gol importante alla Fiorentina, due a due, dopo una nevicata
, lui che di gol ne ha fatti davvero pochini. 
Me lo ricordo rinviare a Verona di forza, sulla schiena di Zigoni… e la palla, dal limite dell’area, beffare il nostro portiere, poteva essere Adani. Finì rocambolescamente 3 a 3. 
Me lo ricordo giocare proprio a Bologna con la Nazionale sperimentale, e meritare poi la convocazione in azzurro, promozione dovuta, contro l’Austria. Un bruttissimo cliente da trattare, un certo Jara che giocava in Bundesliga. 
In effetti l’austriaco fece ammattire il buon Tazio. Finì anche in quel caso 2 a 2. 
Il biondo che correva con la criniera fiammeggiante al vento divenne poi secondo di Cadè nella trionfale corsa verso l’immediato ritorno in serie B del Bologna dei giovanissimi Marocchi e Gazzaneo, di un professore chiamato Livio Pin, dei giocatori gentili venuti da Cremona, Ferri e soprattutto Saurone Frutti. Idoli come calciatori e come persone. 
Dunque Roversi ci stava come il cacio sui maccheroni. Tanti anni nel settore giovanile, allenando e svezzando ottimi ragazzini. 
Fino al giorno in cui, purtroppo, il male si mostrò. Una crisi epilettica nello spogliatoio, Tazio allenava una squadra allievi destinata a un grande futuro, tutti molto bravi. 
I suoi cinni erano appena andati in campo quando si sentì male. Il responso fu drammatico.
Roversi reagì come solo un eroe come lui poteva fare. Non una parola di quanto gli stesse capitando, non una. Chiese di parlare con il presidente Gazzoni Frascara, disse che per motivi di salute doveva ritirarsi. 
Erano giorni un po’ così, al Bologna: Gazzoni aveva liquidato Janich e Romanino Fogli, e io avevo visto Fogli piangere a Casteldebole. Avevao scritto parole di fuoco, sul giornale, per via di questo evento. 
Pochi giorni dopo arrivò la notizia che Roversi non era più allenatore degli allievi. Furioso mi attaccai alla cornetta. “Tazio, se ti è successo quello che è capitato a Romano, dimmelo. E io lo scrivo, quanto vero è Iddio!” tuonai. Lui non disse una parola di troppo. “Guarda che non è così, rispose, guarda che il presidente si è comportato con me da galantuomo. Non posso dirti di più, solo sappi che non sono stato messo alla porta. Me ne vado io” 
Non riuscivo a capire, perchè Tazio fu molto parco di parole. Avrebbe potuto crollare moralmente, ma non lo fece. Mi nascose la sua ultima drammatica partita. 

Così lasciò. E cominciò silenziosamente la sua battaglia, affrontata come sempre con agonismo e purezza. C’era poco da fare contro quel morbo che lo aveva colpito al cervello.
Tazio non ha mai perso la speranza, fino all’ultimo. 
Al Bellaria spese gli ultimi mesi e ne ricordano l’immenso esempio: perché lui, malato terminale, entrava nelle camere di chi stava combattendo la propria battaglia, sfoderando il sorriso, avendo per tutti una parola di conforto, di sostegno. Tutto questo in virtù di una fede incrollabile. 
Se sul campo il mio idolo – di quegli anni – è stato Beppe gol Savoldi, Tazio Roversi ha rappresentato, nella completezza, nella “combinata uomo-calciatore” un vero fuoriclasse. 
Un giorno, molti anni fa, staccato il biglietto per la promozione immediata in serie B, Roversi condusse la prima squadra in quelle che erano le ultime amichevoli di una stagione da ricordare. 
Cadè non veniva più, aveva capito che non sarebbe stato confermato. E a Budrio, il Carlino mi mandò a seguire quella particella del giovedì. Ricordo che nel secondo tempo ero in campo, appoggiato alla rete di recinzione, lungo il fallo laterale. Tazio si alzò dalla panchina e mi vide. Ero un giornalista ragazzino. Mi salutò e poi aggiunse:” Cosa te ne stai lì in piedi, dài, vieni qui in panchina con noi”. Seguii le ultime fasi del match come uno del Bologna, vicino al dottor Dalmastri. Un regalo, quello di Tazio, che non posso dimenticare.  
 

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