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MONDAY NIGHT: L’Italia, il ’68 e la rivoluzione di Valcareggi
Lunga e travagliata è la storia della Nazionale Italiana nei Campionati Europei: mentre nella più prestigiosa Coppa Rimet poi divenuta Coppa del Mondo gli azzurri sono stati capaci di scrivere pagine importantissime, ottenendo quattro vittorie e numerosi piazzamenti di valore, nel torneo partorito dalla geniale mente di Henri Delauney sono state poche le soddisfazioni. Vero è che l’Italia di Pozzo, la squadra che si avviava a vincere i Mondiali del 1934 e del 1938 – con l’intermezzo dell’unico oro olimpico a Berlino nel 1936 – aveva conquistato la prima edizione della Coppa Internazionale, lontana antenata del torneo che avrebbe messo a confronto il meglio del calcio europeo. Ma è vero anche che si trattava di un calcio lontano e molto diverso da quello praticato sul finire degli anni ’60, un calcio dove adesso le contendenti erano divenute molto e di ottimo spessore e che si preparava a cambiare ancora con l’arrivo del ‘Calcio Totale’ olandese.
Quando cominciarono le prime gare di qualificazione agli Europei del 1968 l’Italia non era affatto in buone condizioni. Gli azzurri erano tornati umiliati e sconfitti dai mondiali inglesi del 1966, sorpresi dalla Corea del Nord e accolti al ritorno da aspre critiche: la pesante debacle internazionale, l’ultima di una serie, aveva generato nei tifosi italiani un generale senso di sfiducia e aveva portato all’allontanamento del CT Edmondo Fabbri, capro espiatorio di una spedizione nata male e naufragata per colpe non solo sue. La FIGC si era allora rivolta a un duo composto da Helenio Herrera, artefice dei successi della Grande Inter, e Ferruccio Valcareggi, un’insolita convivenza che sarebbe durata almeno per le qualificazioni al torneo. Triestino, in gioventù mediano di fatica capace di vestire le maglie di Fiorentina, Milan e Bologna in Serie A, Valcareggi aveva chiuso la carriera al Piombino come allenatore-giocatore, e dalla Toscana era poi ripartita la sua seconda vita in panchina: Piombino, appunto, quindi un lungo e positivo periodo al Prato e poi un biennio alla Fiorentina e una stagione all’Atalanta, un curriculum non eccellente che non aveva quindi acceso l’entusiasmo popolare una volta che la sua nomina era stata ufficiale. Eppure “Zio Uccio”, molto più dentro il progetto-Italia del “Mago” dell’Inter, sapeva cose che molti nemmeno sospettavano: sapeva che di giocatori forti in Italia ce ne erano in abbondanza, sapeva che si poteva tornare grandi, sapeva che il calcio alle volte è questione di episodi. Bene, l’Europeo del 1968, primo e unico vinto dall’Italia, gli avrebbe dato ragione su tutte queste cose. Soprattutto sull’ultima.
Nel 1968 il calcio attende una rivoluzione che arriverà in capo a qualche anno grazie a Rinus Michels e Johan Cruijff, ma il mondo la sta già vivendo ad ogni latitudine: in Germania, ad esempio, il tentato omicidio del leader degli studenti giovanili Rudi Dutschke getterà le basi per la nascita della banda Baader-Meinhof; l’America, che sta cancellando quasi un’intera generazione per via della sanguinosa guerra in Vietnam, assiste agli omicidi di Martin Luther King e Robert Kennedy; in Cecoslovacchia inizia la famosa rivoluzione guidata da Alexander Dubček e nota come “Primavera di Praga”, un sogno di libertà che durerà lo spazio di qualche mese. Anche in Italia la situazione è tesa, le scuole vengono occupate e lo scontro politico diventa aspro: sono le basi per quelli che saranno “gli anni di piombo” e che culminano con studenti e polizia che si scontrano a Roma nella famosa “battaglia di Valle Giulia”. Sono anni tesi, non è facile pensare al pallone ma ancora una volta il calcio compirà la sua magia, riuscendo in qualche modo e seppur brevemente a ricomporre intorno a radio e TV persone e idee tanto diverse da essere in ogni altra occasione inconciliabili.
La terza edizione dei Campionati Europei non differisce di molto dalle due che l’hanno preceduta: la fase finale si svolgerà unicamente in un Paese, ma a questa si arriverà attraverso lunghe e difficili qualificazioni che ridurranno il numero delle pretendenti alla vittoria da 31 a 4. Per farlo vengono istituiti otto gironi, sette comprendenti quattro squadre e uno che invece ne comprende tre. A noi tocca il gruppo numero 6, che comprende Romania, Svizzera e Cipro, girone più che abbordabile a patto di ignorare i fantasmi nord-coreani. Valcareggi e Herrera presentano una squadra che si basa sul blocco dell’Inter e che vede inizialmente Sarti tra i pali, Picchi libero e Guarneri stopper, il grande Facchetti fluidificante a sinistra e un centrocampo che rinuncia spesso a Bulgarelli (cui viene preferito il napoletano Juliano) ma che può affidarsi ai piedi buoni di Corso, all’incisività di Mazzola e alle volate sulla fascia di Domenghini. Una squadra concreta e con diversi piedi buoni, cui manca forse un po’ di incisività davanti ma che regola facilmente le avversarie vincendo cinque partite su sei e pareggiando solo a Berna con la Svizzera, regolata poi a Cagliari nell’ultima giornata con un secco 4 a 0 segnale di una squadra che si sta trovando e ritrovando. Insieme agli azzurri superano i gironi: la Spagna campione d’Europa in carica, che nel Gruppo 1 ha la meglio sulla Cecoslovacchia grazie alla clamorosa caduta casalinga di quest’ultima con l’Irlanda nell’ultima gara; la Bulgaria del grande bomber Asparuhov, che sorprende il Portogallo di Eusebio terzo ai Mondiali del ’66; la temibile Unione Sovietica guidata dallo straordinario regista Valerij Voronin, che domina il Gruppo 3; l’Ungheria che sembra rinata e che ha la meglio sulla Germania Est e su un’Olanda che ancora studia da grande; la Francia, patria degli ideatori del torneo; l’Inghilterra campione mondiale in carica, che conquista la qualificazione vincendo l’Home Championship del 1968. A queste sette squadre si aggiunge la Jugoslavia, che nell’unico girone a tre squadre ha la meglio sulla fortissima Germania Ovest grazie all’estro dei propri giocatori e a quello di Panajot Pano, straordinario talento di un’Albania capace di mettere in croce Beckenbauer e compagni a Tirana in una gara che terminerà 0 a 0 ma che sarà a lungo ricordata dal “Kaiser” per la classe cristallina del numero 10 albanese.
La Jugoslavia tuttavia merita ampiamente la qualificazione ai quarti di finale, potendo schierare una formazione che unisce muscoli e fantasia ed esaltata dalla completezza di Dragan Džajić, asso della Stella Rossa capace nelle giornate di grazia di fare il bello e il cattivo tempo con i suoi cross millimetrici, il tiro mortifero e una straordinaria abilità nel tirare i calci piazzati. I balcanici si confermano contro la Francia nei quarti di finale, quando dopo aver pareggiato in trasferta distruggono gli avversari al ritorno con un netto 5 a 0 che li porta alla fase finale: dopo anni in cui hanno mostrato un talento enorme quanto discontinuo gli slavi possono davvero ambire a recitare un ruolo da protagonisti nell’importante rassegna internazionale. Con loro i “cugini” (politicamente parlando) dell’Unione Sovietica, che in un duello che presenta più di qualche tensione superano l’Ungheria rimontando la sconfitta per 2 a 0 patita fuori casa con un imperioso 3 a 0 allo stadio Lenin di Mosca che porta le firme di Byšovec e di Khurtsilava, miglior calciatore georgiano di sempre e stella della Dinamo Tbilisi. Terza squadra a raggiungere la fase finale l’Inghilterra, che ha la meglio sulla Spagna campione d’Europa in carica in una sfida che teoricamente metteva di fronte il meglio del calcio mondiale e continentale: dopo aver vinto davanti ai 100,000 spettatori di Wembley per 1 a 0 grazie a una rete giunta nel finale segnata da Bobby Charlton i campioni del mondo guidati da Alf Ramsey si ripetono in terra iberica, quando gli oltre 120,000 tifosi spagnoli presenti al Bernabeu vedono i propri beniamini passare in vantaggio con Amancio e poi finire rimontati dalle reti siglate da Peters e Hunter.
E poi ci siamo noi. La Bulgaria l’abbiamo affrontata solo una volta prima della doppia sfida che ad aprile del 1968 ci aspetta per stabilire chi tra noi e loro andrà alla fase finale del torneo. Poco prima dei Mondiali d’Inghilterra, poco prima della Corea, avevamo vinto per 6 a 1 con l’unico acuto azzurro del cagliaritano Rizzo, capace di segnare una doppietta in pochi minuti e vedendo andare in gol anche Mazzola, Perani, Barison e un certo Gigi Meroni. La “farfalla granata” non c’è più, scomparsa a 24 anni in seguito a un tragico incidente, ma se in Domenghini e compagni c’è fiducia ben presto capiamo, giunti a Sofia, che non sarà una passeggiata: la Bulgaria è una squadra di qualità e corsa e ci sconfigge per 3 a 2 al termine di una gara iniziata subito in salita per un rigore segnato da Kotkov. È la stella del Lokomotiv Sofia, grande rivale del Levski di Asparuhov con cui in Nazionale forma una temibile coppia offensiva che poi sarà ricomposta nel 1969 quando si trasferirà proprio al Levski: i due grandi campioni bulgari periranno insieme in un terribile incidente automobilistico, rispettivamente a 28 e 33 anni. Al ritorno, previsto due settimane dopo nel catino del San Paolo di Napoli, sono 90,000 gli spettatori che spingono gli azzurri alla sperata ma non scontata rimonta: finisce 2 a 0 per noi, con Prati (già autore nel finale della gara di andata del gol che ci ha tenuto in vita) che apre le danze al 14° e il talentuoso Domenghini che chiude la pratica poco dopo l’inizio del secondo tempo facendo esplodere lo stadio.
Napoli ci porta bene, e lo vedremo anche nella fase finale che la UEFA affida proprio all’Italia e che si gioca dal 5 al 10 giugno. Il tabellone propone i seguenti abbinamenti: i forti campioni del mondo dell’Inghilterra contro i talenti emergenti della Jugoslavia a Firenze e, ancora a Napoli, l’Italia che tenta di rinascere contro la solida e misteriosa Unione Sovietica, di cui si dicono meraviglie non si sa quanto al confine con la leggenda urbana visto che la Cortina di Ferro fa arrivare ben poche notizie al mondo occidentale. Sono quattro nazionali fortissime e che grosso modo si equivalgono, ma mentre i sovietici hanno il fascino del mistero, gli inglesi sono i maestri e gli slavi gli artisti noi sembriamo godere di minore credito. Ce ne accorgiamo quando la Jugoslavia, che supera l’Inghilterra nel finale con uno straordinario gol di Džajić – abile a controllare un lungo lancio e fulminare Banks – parlando a proposito della finale che l’attende dice cose tipo “adesso che abbiamo superato i migliori non vediamo perché non dovremmo sconfiggere anche gli altri”. “Gli altri” siamo noi: siamo arrivati in finale con un episodio che ci riporta ad un calcio antico, ben lontano da quello attuale fatto di goal-line technology e moviola in campo. Un calcio dove ancora non sono previsti i calci di rigore in caso di parità: si ricorre ai supplementari, e nel caso il pareggio persista ancora e non sia possibile ripetere la gara, ecco che si ricorre al lancio della monetina. Sono da poco passate le otto di sera quando tutta l’Italia calcistica attende con il fiato sospeso: i ragazzi di Valcareggi hanno giocato una gara gagliarda contro i forti sovietici, cogliendo anche un palo nei supplementari con il solito Domenghini, ma il risultato non ha voluto saperne di sbloccarsi. L’arbitro tedesco Tschenscher, una volta fischiata la fine, ha chiamato i capitani negli spogliatoi: il nostro Facchetti se la vedrà dunque con “Ivan il Terribile”, il grande difensore del CSKA Albert Shesternyov. Oggetto del contendere una monetina, la caduta della quale determinerà chi accederà alla finale. Solo i due calciatori e il direttore di gara, addetto al lancio, assistono a una scena che ben presto assume i contorni della leggenda: alla prima caduta si dice che la moneta non indichi né testa né croce, finendo per conficcarsi nella fessura di una piastrella restando in bilico. Quando finalmente un San Paolo gremito in ogni ordine di posto e con il cuore in mano vede uscire dagli spogliatoi una figura capisce che è fatta: si tratta di Facchetti, sorridente e con le braccia alzate. L’Italia è in finale!
Tre giorni dopo, l’8 giugno, va in scena a Roma la finale degli Europei del 1968. L’Olimpico presenta sugli spalti quasi 70,000 tifosi, per la maggioranza italiani che hanno ritrovato fiducia in una squadra che solo due anni prima sembrava morta e che è stata resuscitata da Ferruccio Valcareggi. Il quale da un paio di partite ha sostituito l’infortunato Albertosi tra i pali con il portiere del Napoli Dino Zoff, 26 anni e una carriera che sarà ancora lunghissima e in cui le soddisfazioni cominciano ad arrivare in questi giorni.
Il suo esordio in azzurro è infatti arrivato contro la Bulgaria, poco più di un mese prima, e questa finale è la sua terza presenza, una situazione che a tanti farebbe tremare le gambe. Non a lui però, anche perché a proteggerlo dalle invenzioni dei fenomenali slavi il CT ha allestito una difesa di ferro formata dagli interisti Burgnich e Facchetti, dall’ex-interista Guarneri e dallo juventino Castano. A centrocampo il regista è “Totonno” Juliano, affiancato da Ferrini e Lodetti, preferito al meno muscolare ma senz’altro più talentuoso Rivera. In attacco ecco infine il tridente formato dall’estroso Domenghini, Pierino Prati e la sorpresa Pietro Anastasi, vent’anni e già simbolo del riscatto meridionale: nato a Catania, si è trasferito da poco alla Juventus diventando l’idolo dei tanti operai che dal mezzogiorno si sono trasferiti nel produttivo nord alla ricerca di una possibilità per farsi una vita. Gioca al posto dell’acciaccato Mazzola, e nonostante l’indubbio impegno è chiaro a tutti che non è la stessa cosa senza il figlio del grande Valentino. È una gara dura, Domenghini sfiora la rete su bella iniziativa di Prati ma il pallino del gioco, complice anche l’assenza di “piedi fini” a centrocampo (in panchina Valcareggi si è portato De Sisti, Bulgarelli e Rivera) resta in mano ai balcanici, che sono a tratti irresistibili e che pochi secondi dopo gelano le speranze azzurre. Dalla destra il pallone arriva in area di rigore e supera i difensori azzurri arrivando al liberissimo Džajić, che ha tutto il tempo per controllare e battere a rete superando un incolpevole Zoff. Il primo tempo si conclude così, con la Jugoslavia in vantaggio di una rete e che intravede finalmente il primo grande successo internazionale. Oltre alla paura di perdere, però, nello sport esiste anche quella di vincere: è quella che si impadronisce dei fini artisti balcanici, che a 45 minuti dalla vittoria perdono la propria spensieratezza e cominciano a giocare solo per far scorrere il tempo. Ed è così che un’Italia ricca di grinta ma povere di idee, che ha visto Domenghini isolato e incapace di pungere, ritrova se stessa: proprio l’ala dell’Inter, quando mancano dieci minuti alla fine, trova il pareggio con un violento calcio di punizione concesso per un fallo su Lodetti e che passa attraverso la barriera avversaria finendo per insaccarsi nella rete difesa da Pantelić. Ancora una volta i supplementari non servono a niente, e visto che una finale non può essere decisa con il lancio di una monetina l’unica soluzione è che la gara venga ripetuta due giorni dopo. 10 giugno 1968: le squadre che scendono in campo per ripetere la finale e decidere chi sia la più forte d’Europa sono le stesse, ma mentre la Jugoslavia ha operato un solo cambio, inserendo Hosić al posto Musemić in attacco, Ferruccio Valcareggi ha compreso i suoi errori e ha rivoluzionato una squadra apparsa poco convincente e coraggiosa. Dentro dunque in difesa il milanista Rosato e lo juventino Salvadore al posto di Castano e Guarneri, con quest’ultimo avanzato a centrocampo a coprire la regia cerebrale di “Picchio” De Sisti, unico rappresentante della Fiorentina che in capo a dodici mesi vincerà il suo secondo storico Scudetto. In attacco poi, oltre ai confermati Domenghini e Anastasi, spazio al recupero di Mazzola, che agirà da spola tra centrocampo e attacco visto che in area di rigore il CT ha deciso di affidarsi a “Rombo di Tuono” Gigi Riva, distintosi nelle qualificazioni con 6 reti in tre gare ma poi lasciato in panchina per tutto il torneo.
“Zio Uccio” ha indovinato tutto, perché è tutta un’altra Italia: gli azzurri partono fortissimo, sfiorando il gol con Anastasi e Riva, ed è proprio il bomber del Cagliari che all’11° si avventa su un tiro sballato di Domenghini e lo trasforma nel gol del vantaggio con un preciso sinistro che supera Pantelić. Gli slavi sono stanchi e storditi, intimiditi dall’entusiasmo e dalla freschezza degli azzurri che infine scoprono di avere anche notevoli qualità tecniche: è da poco passata la mezz’ora quando Zoff blocca un tiro di Trivić e serve Mazzola, il quale serve immediatamente De Sisti. Dopo un dialogo con Domenghini il regista viola serve lo juventino Anastasi, che controlla finendo per alzarsi il pallone e poi batte al volo con un destro imprendibile che non da alcuno scampo al portiere. Una gara mai cominciata si conclude di fatto qui, e al novantesimo l’Italia può alzare la sua prima – e ad oggi unica – “Coppa Henri Delauney”. Gli azzurri sono rinati proprio dopo aver toccato il fondo, e la squadra che vince gli Europei è la base di quella che due anni dopo, in Messico, giungerà fino in finale scrivendo forse la pagina più bella della storia del nostro calcio, quella che sarà definita “la partita del secolo” e che ci vedrà sconfiggere la Germania Ovest per 4 a 3. Nell’anno delle rivoluzioni, dunque, anche l’Italia calcistica ne compie una grazie a Ferruccio Valcareggi, che ridà tono e colore a un azzurro che si era tristemente stinto negli anni precedenti alla sua gestione. Siamo tornati, proprio quando non se lo aspettava nessuno. E se succedesse ancora?
foto (nell’ordine): UEFA.com, forzaitalianfootballonline, messaggero.it, aali.al, sportskeeda.com, bergamonews.it, bauscia.it, yahoo.com, UEFA.com
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