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MONDAY NIGHT: La Coppa Internazionale, il primo trionfo azzurro – 11 lug

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10 giugno 1934, Stadio del Partito Nazionale Fascista, Roma. Italia e Cecoslovacchia si stanno giocando la finale della seconda edizione della Coppa Rimet, il campionato del mondo nato quattro anni prima e che serve a stabilire quale sia la scuola calcistica più forte sul pianeta. Un torneo che ha visto arbitraggi controversi e l’assenza dell’Inghilterra e dei campioni in carica dell’Uruguay, probabilmente le due squadre più forti dell’epoca: gli inglesi non si sono presentati perché si ritengono talmente più forti da non sentire il bisogno di provarlo a nessuno, gli uruguaiani invece perché ancora offesi dal semi-boicottaggio ricevuto nel 1930, quando appena quattro nazioni europee intrapresero il viaggio verso il Sudamerica e il torneo fu salvato solo dai buoni uffici di Jules Rimet.

Si gioca comunque per il prestigio e non solo. Se l’ordine ricevuto dagli azzurri da parte di Mussolini non è stato come leggenda vuole “vincere o morire”, il senso è stato quello: troppo importanti sono i trionfi sportivi per la propaganda voluta dal Duce, al punto che per mettere nelle migliori condizioni possibili il CT Pozzo il regime fascista ha chiuso un occhio sulla tanto decantata chiusura delle frontiere. Una legge che considera italiano anche chi vanta avi provenienti dal Belpaese ha infatti permesso di vestire d’azzurro il poderoso “doble ancho” Luisito Monti, già protagonista sconfitto – con l’Argentina – dei Mondiali del 1930, e l’estrosa ala sinistra Raimundo Orsi: sono due dei nove giocatori che Pozzo ha convocato dalla Juventus, che sta dominando il campionato sotto la guida dell’amico Carlo Carcano, i due migliori. La Cecoslovacchia è squadra di enormi qualità tecniche e tattiche, sta vincendo 1 a 0 quando mancano meno di dieci minuti al termine. Il nostro CT gesticola, e in mancanza di regole sulla “area tecnica” calpestabile si sposta dietro la porta danubiana, come per indicare ai suoi la via del successo. Il resto è storia: primo “Mumo” Orsi pareggia con un gran tiro dai venti metri, quindi è il bolognese Schiavio, esausto, a segnare la rete che decide la gara prima di svenire per il calore, la spossatezza, l’emozione.

L’Italia è campione del mondo, si ripeterà quattro anni dopo in Francia e nel mezzo, nel 1936, si recherà a Berlino per conquistare la prima e unica medaglia d’oro calcistica della sua storia. Il football, giunto in Europa da poco più di trent’anni, si colora dell’azzurro italiano. Ma come è iniziata questa storia di trionfi? Vittorio Pozzo lo sa ma non lo dice, si limita a frugarsi in tasca, sfiorando un singolare amuleto portafortuna: si tratta di una scheggia di cristallo di Boemia, un pezzo del trofeo conquistato pochi anni prima, il primo mai alzato dall’Italia. La Coppa Internazionale 1927-1930, la primissima antenata dei Campionati Europei che avrebbero visto la luce soltanto nel 1960, quando i nomi di Meazza, Schiavio, Pozzo – e di Mussolini – sarebbero stati soltanto ricordi pur non troppo lontani.

L’idea era venuta ad un fraterno amico di Pozzo, Hugo Meisl: pioniere del calcio austriaco, egli desiderava da tempo stabilire quale fosse la migliore tra le scuole calcistiche presenti nel continente. Si era ispirato al Torneo Interbritannico – Home British Championship – che dal lontano 1880 metteva di fronte le rappresentative di Inghilterra, Scozia, Galles e Irlanda: essendo il football nato in Gran Bretagna era logico per i sudditi di Sua Maestà che dovesse qui essere stabilito quale fosse la squadra più forte del mondo. Ebbene Meisl mutuò l’idea e contatto tramite la federcalcio austriaca quelle che riteneva le migliori squadre europee dell’epoca: Italia, Ungheria, Cecoslovacchia e Svizzera. Queste cinque nazionali si sarebbero sfidate tra loro in gare di andata e ritorno, e chi avesse totalizzato più punti avrebbe potuto a buon diritto dirsi “regina d’Europa”. Un onore impagabile, a cui però il primo ministro cecoslovacco Antonín Švehla aggiunse personalmente una coppa in cristallo di Boemia. Nessuno poteva saperlo, ma proprio con la creazione di questo scintillante trofeo sarebbe nata la storia vincente della Nazionale italiana.

Affidata inizialmente ad Augusto Rangone, futuro giornalista e ai tempi apprendista allenatore sotto i celebri Pozzo, Carcano e Árpád Weisz, l’Italia non partiva certamente tra le favorite: molto più rinomate erano Austria, Cecoslovacchia e Ungheria, rappresentanti della scuola danubiana portata in Europa da Jimmy Hogan e capaci di incantare il pubblico con giocate di alta classe e una mentalità molto offensiva. Tutto il contrario degli azzurri, noti per la tenacia, la combattività e l’ordine tattico ma non certo per un eleganza e creatività, qualità queste che Pozzo – novello antropologo – non riteneva adatte al popolo italiano per vocazione. La prima uscita azzurra avvenne il 23 ottobre del 1927, quando a Praga “el matador” Julio Libonatti, stella del Torino Campione d’Italia e primo oriundo della storia italiana, prima portò in vantaggio i nostri e poi pareggiò nel finale dopo il sorpasso operato dal giovane talento dello Sparta Praga František Svoboda. Era un buon punto, considerato che i cechi avevano sconfitto la temuta Austria all’esordio, e c’era quindi fiducia che al Littoriale di Bologna si sarebbe potuto fare risultato contro gli uomini di Meisl. Fu una previsione sbagliata: nonostante un arbitraggio evidentemente sfavorevole, gli austriaci uscirono vittoriosi dalla gara che si svolse il 6 novembre 1927 e che rendeva quindi necessaria una pronta reazione. Questa arrivò nel 1928, quando la squadra fu affidata all’ex-mediano dell’Alessandria Carlo Carcano: in futuro sarebbe stato il creatore della celebre “Juventus del quinquennio” prima di essere allontanato dal fascismo per una mai confermata omosessualità, ma ai tempi era persona nota e rispettata da tutti i gerarchi, che soddisfatti videro gli azzurri sconfiggere prima la Svizzera per 3 a 2, quindi l’Ungheria per 4 a 3, nuovamente gli svizzeri a Zurigo (ancora per 3 a 2) e infine la Cecoslovacchia, regolata al Littoriale con un bel 4 a 2.

Risultati importanti, tanti gol: l’Italia aveva trasformato se stessa, affidandosi alla difesa della Juventus (i celebri Combi, Rosetta e Allemandi) e a una fase offensiva che vedeva protagonisti “il trio delle meraviglie” del Torino composta dal tecnico Baloncieri, alessandrino cresciuto a Rosario, il già citato Libonatti e il ficcante spezzino Gino Rossetti, che proprio nella Divisione Nazionale 1928-1929 avrebbe segnato qualcosa come 36 reti in 30 gare. Altri giocatori fondamentali erano i giovani Schiavio e Meazza, future stelle assolute, il micidiale bomber livornese Magnozzi, l’estrosa ala del Bari Raffaele Costantino e Leopoldo Conti, divenuto bandiera e capitano dell’Inter dopo essere stato letteralmente rapito dai suoi tifosi quando era ancora un ragazzo, stella dei campionati ULIC che avevano sostituito quello maggiore durante la Grande Guerra.

Già. La Grande Guerra. 

Quasi due milioni di italiani erano morti in quello che fino a quel momento era stato il più grande conflitto mai visto dall’uomo. In pochi potevano sospettare che la storia si sarebbe ripetuta nel giro di qualche anno e per gli stessi motivi per cui da sempre un uomo fa la guerra a un altro uomo: nazionalismo, espansionismo, avidità. Vittorio Pozzo la guerra l’aveva vissuta prendendovi parte nel corpo degli alpini, e qui aveva fatto suoi alcuni valori che considerava imprescindibili: umiltà, disciplina, modestia e amor patrio. Era su questi valori che aveva fondato la sua Italia (il cui CT era Carcano ma solo nominalmente) e fu su questi che si concentrò quando la Coppa Internazionale arrivò alle sue battute conclusive. All’Hohe Warte Stadion di Vienna l’Austria aveva strapazzato Combi e compagni con un netto 3 a 0, confermando come a noi il gioco di Meisl fosse particolarmente indigesto, quindi si era imposta anche sulla Svizzera, malinconico fanalino di coda incapace di conquistare anche un sol punto in otto partite. Esclusi gli elvetici, però, il torneo era stato un successo e si era rivelato molto equilibrato, tanto che quando mancava una gara appena la classifica vedeva Austria e Cecoslovacchia a 10 punti immediatamente tallonate da Italia e Ungheria, 9 punti ma ancora una sfida da giocarsi in quel di Budapest l’11 maggio del 1930. Chi avesse vinto questa gara avrebbe vinto il torneo, e Pozzo ne era perfettamente consapevole.

Tramite gli amici Rangone e Carcano aveva plasmato la squadra lungo i tre anni della competizione. Ammainate lungo il percorso bandiere come Conti, Cevenini e il celebre “sfondareti” Levratto, aveva inserito il geniale e irriverente italo-argentino in fascia, il tenace mediano del Bologna Pitto in mediana e soprattutto quello che per molti è stato il più grande calciatore mai espresso dall’Italia. Si trattava di Giuseppe Meazza, era nato povero in canna e si era presto trovato orfano per via della guerra: giocando per strada si era fatto notare prima da un fan, che gli aveva regalato il primo paio di scarpe da calcio, quindi dall’Inter. Scoperto dal famoso Fulvio Bernardini, che si sarebbe distinto nel centrocampo della Roma dopo una fruttuosa parentesi da punta proprio in nerazzurro, era stato lanciato in prima squadra dal grande Árpád Weisz ancora giovanissimo, evento che era stato salutato con ironia dal capitano Leopoldo Conti: “Cos’è, facciamo giocare anche i balilla?”

Il “Balilla” si era scoperto bomber implacabile, e proprio nella stagione che aveva portato alla conclusione della Coppa Internazionale, la sua terza da professionista, aveva segnato la bellezza di 31 reti in 33 gare bissando l’eccellente stagione precedente, quando i gol erano stati 33 in appena 29 partite. Capace di fare tutto, centrattacco con vocazioni di regista e tecnica sudamericana, Meazza rimase particolarmente colpito dal viaggio che Pozzo organizzò per raggiungere Budapest, luogo dell’ultima e decisiva sfida valida per il trofeo voluto dall’amico Meisl. Ricordando il proprio passato di alpino, il Commissario Tecnico portò gli azzurri nei luoghi devastati dove poco più di un decennio prima tanti uomini erano caduti per difendere la patria. Qui avevano trovato la morte, tra i tanti, Enrico Canfari, Luigi Ferraris, Virgilio Fossati, Erminio Brevedan, eroi di Juventus, Genoa, Inter, Milan, ragazzi come quelli che adesso, in azzurro, si preparavano ad una partita in cui in gioco ci sarebbe stato lo stesso onore dell’Italia. Sarebbero stati capaci di onorare al meglio i loro illustri predecessori? Questo chiese Pozzo ai suoi, avendo in risposta occhi entusiasti e determinati.

Sul campo, quel giorno di maggio del 1930, non ci fu letteralmente storia. Ispirati dalle parole del proprio CT, determinati e inarrestabili, gli azzurri travolsero l’Ungheria colpendo per ben cinque volte. Fu Meazza ad aprire le marcature quando era passato da poco il quarto d’ora di gioco, e fu sempre lui a chiuderle a mezz’ora dalla fine con una doppietta a cui fecero seguito i gol di Magnozzi e Costantino. L’Italia, balzata a quota 11 punti proprio nell’ultima sfida, conquistava così il suo primo trofeo e si preparava a quelli che sarebbero stati i gloriosi anni ’30 ricevendo il prestigioso trofeo in cristallo di Boemia, che però nei festeggiamenti lungo il viaggio di ritorno in treno sarebbe caduto a terra rompendosi. Ritenendolo di buon auspicio, Pozzo ne trafugò una scaglia, la stessa che stringeva nella finale mondiale di Roma nel 1934 e che avrebbe poi stretto ancora a Berlino nel 1936 e a Parigi nel 1938.

E chissà quanto ancora sarebbe potuta durare la favola di una Nazionale quasi imbattibile, se solo il fascismo e il nazismo non avessero dato via alla seconda guerra mondiale. Una follia che costò la vita al grande Weisz, morto in un lager di Auschwitz; a Hugo Meisl, fraterno amico di Pozzo morto di crepacuore poco prima dell’annessione forzata dell’Austria alla Germania; a moltissimi altri uomini, che il pallone aveva unito e la follia dei potenti reso nuovamente nemici. Quando tutto finì il bisogno di aria nuova fece si che Pozzo, considerato a torto vicino al fascismo, venisse presto allontanato e poi quasi dimenticato. Un epilogo triste per un uomo, un patriota, che tanto ha dato al nostro calcio e al nostro Paese. Ma è bello pensare che fino ai suoi ultimi giorni il nostro primo grande CT abbia potuto socchiudere gli occhi e ricordare le tante vittorie raggiunte con i suoi ragazzi in maglia azzurra, vittorie cominciate proprio grazie a quella splendida quanto fragile coppa in cristallo di Boemia.

foto: varienews.blogspot.com, wikipedia.org, vivoazzurro.it, professionistiscuola.it, gazzetta.it,  la stampa.it

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