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Bologna

Tanti Auguri Carlo!

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Il Messaggero Veneto

 

 

Oggi lo potremmo definire con orgogliosa semplicità un tuttocampista, vocabolo entrato di prepotenza negli ultimi tempi nel gergo calcistico e nel nuovo dizionario Zingarelli senza nemmeno chiedere il permesso, relegando all’angolo lo sfruttato termine jolly senza una giustificata motivazione, come quando da contropiede siamo passati a parlare di ripartenza. Ma senza addentrarci nella natura e nello sviluppo temporale di certi neologismi, nella vita bisogna saper andare sempre oltre certe parole, anche se imbellettate nella forma, non devono mai trascurare o addirittura alterare la vera sostanza delle cose.

A Carlo Troscè da Recanati, cittadina dell’entroterra marchigiano famosa nel mondo per aver dato i natali a eccellenze della storia culturale e artistica italiana come Giacomo Leopardi e Beniamino Gigli, una certa dose di concretezza non è mai mancata. Duttile centrocampista classe 1970 di quello scalognato (ma anche mal gestito) Bologna F.C. all’alba degli anni Novanta transitato nel giro di pochi anni dalle platee europee della Coppa Uefa tra amare retrocessioni fino ad un ignobile fallimento. Tra i pochissimi a salvarsi per rendimento e continuità in quel drammatico naufragio tecnico e sportivo, nel cammino verso la rinascita dagli inferi della terza serie compare anche la sua firma.

Ritrovarlo per una chiacchierata amichevole e rievocare quei momenti, sebbene piuttosto umbratili e cupi se visti dal mero punto di vista del tifoso ma allo stesso tempo lieti perché in fondo eravamo tutti più giovani, spensierati e ben lontani dagli attuali eventi pandemici, si è rivelata una magnifica occasione per mettere ordine nel cassetto dei ricordi in maglia rossoblu di Carlo, aneddoti compresi.

Troscè approda giovanissimo sotto le Due Torri nell’estate 1989 dall’Imolese, società militante nell’allora campionato Interregionale (l’attuale serie D), su segnalazione del responsabile degli osservatori felsinei Mondino Fabbri, non prima però di battere la concorrenza della Lazio, fortemente interessata a questo centrocampista con spiccate doti offensive dai ricci castano chiari, occhi vivaci e dalla corporatura ridotta ma tosta e solida. “I dirigenti biancocelesti spingevano molto per portarmi a Roma, ma alla fine ha prevalso nella scelta la conoscenza dell’ambiente emiliano e i fraterni rapporti tra Fabbri e il direttore sportivo imolese Gianni Bombarda. Ritrovarmi ad appena diciannove anni a condividere lo spogliatoio con vere icone del calcio italiano come Cabrini, Giordano, Pecci e con tanti altri ottimi giocatori come Poli, Luppi, De Marchi, Bonini, Marronaro, Bonetti, il mitico Villa, tanto per citarne alcuni, per me è stato come sognare ad occhi aperti. Se penso che soltanto tre anni prima, al mio debutto nel mondo professionistico con la Maceratese in serie C2, collezionavo i loro volti nell’album delle figurine!! Essermeli ritrovati tutti quanti di fronte e sul campo, riconoscendoli uno per uno prima che si presentassero, dimmi tu se non era vivere un sogno quello. Mister Maifredi mi ha fatto sentire fin da subito parte integrante del gruppo, nonostante la mia giovane età e la provenienza dal mondo dilettantistico. Anche se spesso ero aggregato alla Primavera, non ho atteso tanto per fare il mio ingresso in prima squadra”.

Già ad agosto, infatti, in occasione del primo turno di Coppa Italia contro la Triestina al Dall’Ara, con Marronaro in campo con una vistosa maschera scura applicata sul viso per proteggere il setto nasale lesionato, Troscè subentra nel finale di gara al posto di Poli. Dovrà attendere però un paio di mesi, prima di esordire ufficialmente in campionato. Accade all’Olimpico, per ironia della sorta proprio contro la rejetta Lazio, in una giornata amara per i colori rossoblu, una manciata di minuti al cospetto di un Ruben Sosa scatenato.

Il corpulento e canuto tecnico bresciano inizia ad apprezzare seriamente il buon dinamismo e la versatilità tattica offerti dal giovanotto marchigiano. Altro subentro in Coppa Italia contro il Napoli, ma soprattutto una maglia da titolare contro l’Inter schiacciasassi del Trap. “Olimpico, San Paolo e Meazza. Brividi che puoi persino sfiorare. Con tutto il rispetto, non è la stessa giocare a Russi o a Lugo. Contro i nerazzurri era poi per me un vero derby, poiché tifo Milan sin da bambino. Anche se indossavo il numero dieci, avevo il compito di arginare le iniziative di Lothar Matthäus… ecco, diciamo che ci ho provato, fermarlo del tutto era impossibile. Il terreno di San Siro in quel periodo era al limite della praticabilità e il campione tedesco dell’Inter sembrava arasse il campo tanto era dirompente la sua corsa palla al piede”.

Altre comparsate nei minuti finali con Cesena e Verona, poi a piazzamento Uefa ottenuto – grazie alla vittoria del Milan in Coppa Campioni – è tempo di saluti, sia per Carlo che per Maifredi – alla Vecchia Signora non si può dire di no – ma con la promessa da parte di entrambi di un arrivederci. “Il nuovo tecnico Scoglio aveva ritenuto opportuno, con l’assenso della dirigenza, che dovessi farmi le ossa da qualche parte, per poter giocare con maggiore continuità. Ed eccomi dunque a Trento, in serie C1, con la formula del prestito. La ricordo come una fruttuosa esperienza che mi permesso di guadagnare la convocazione nella rappresentativa nazionale under 21 della categoria. Peccato però non essere rimasto a Bologna, perché con tutta quella serie di infortuni occorsi ai rossoblu durante la stagione 1990-91 avrei potuto partecipare a qualche gara di Coppa Uefa”.

Esonerato Scoglio, non ce la fa nemmeno Radice con tutta la sua esperienza e professionalità a salvare quel derelitto BFC dalla serie B. Intanto anche per il presidente Corioni è giunta l’ora del commiato. Al vertice societario si insedia quindi un’inedita triade di imprenditori, i bolognesi Gnudi e Gruppioni e il belga-cremonese Wanderlingh, che vedono proprio in Maifredi, reduce dalla negativamente nota esperienza juventina, l’uomo giusto per risollevare il morale di un’ambiente un po’ sfiduciato e soprattutto, per riportare in fretta il Bologna nella massima serie. Viene allestita una squadra di tutto rispetto per la cadetteria. Tra le novità, l’ex milanista Pazzagli in porta, List e Baroni in difesa, Evangelisti e Gerolin a centrocampo, a supportare un quartetto offensivo che ai nastri di partenza presuppone ben pochi rivali. Poli, Incocciati, il centravanti della Nazionale svizzera di origini turche Turkylmaz e la star indiscussa, l’ungherese Lajos Detari.

C’è anche il ventunenne Troscè, di ritorno dall’esperienza trentina, ma non più in versione occasionale rincalzo, ma come valida alternativa ai titolari. Mica vero. Carlo viene quasi sempre schierato sia dall’omone di Lograto che dal subentrante Sonetti negli undici iniziali, talvolta sulla trequarti, a ridosso delle punte, altre sulla mediana, per fornire energia e garantire equilibrio alla manovra. Ventinove presenze complessive e due reti, una in bello slalom in casa contro il Padova, l’altra di testa in tuffo nell’insperata vittoria al Dorico contro la capolista Ancona. “È stata una stagione piuttosto strana… dovevamo dominare il campionato e invece alla fine ci siamo salvati soltanto per un punto. La nuova società era ambiziosa e per certi versi anche inesperta. Forse la squadra non è stata assemblata in modo armonico e c’erano tanti giocatori anche dai trascorsi importanti ma ormai a fine carriera. La serie B è una categoria molto agonistica e fisica. Ci è mancata probabilmente anche la giusta “fame” che nel calcio non deve mai mancare se si vogliono raggiungere certi traguardi. Mi dispiace dirlo, ma Maifredi aveva perso l’entusiasmo che lo contraddistingueva e il feeling con un ambiente che l’aveva adottato. L’arrivo di Sonetti, tecnico esperto, preparato e grande motivatore, ha dato una scossa e il via ad un prodigioso recupero, tra risultati alterni. Chissà, senza l’infortunio di Detari nel momento clou della stagione, a mio avviso si poteva raggiungere e restare nel quartetto di testa. Invece ci siamo un po’ troppo sciolti nel finale”.

Con Lajos si era creato un bellissimo rapporto… in partita, appena ricevevo o recuperavo il pallone, sentivo che mi chiamava a gran voce “Carlo, Carlo, passa palla a magico magiaro… metti in banca, metti in banca!!!”. Fuoriclasse autentico, non del tutto supportato e forse sopportato… Di quel gruppo, l’unico con cui sono rimasto in contatto è Pierluigi Di Già”.

Nella stagione successiva 1992-93 alcune partenze e addii eccellenti (Villa, Mariani, Negro, Poli, Detari, tanto per fare alcuni nomi) impoveriscono senza ombra di dubbio la qualità complessiva della rosa, non rafforzata adeguatamente per cavalcare sogni promozione, affidati ad ogni modo agli schemi vecchio stile del sergente di ferro Bersellini. Nel frattempo, montano gravi problemi societari e in seno alla dirigenza, figli di una gestione disastrata soprattutto alla voce bilancio. Via Gruppioni (l’altro componente della triade Wanderlingh aveva già levato le tende in tempi non ancora sospetti), resta al comando in solitaria Gnudi, coadiuvato nell’ombra ma con ampi poteri decisionali detenuti dal socio in affari nonché presidente del Foggia Pasquale Casillo e dei suoi uomini di fiducia. Con conseguenze sportive e gestionali catastrofiche di lì a poco. “Che confusione societaria in quella stagione… non si capiva chi davvero prendesse decisioni e tutto questo noi giocatori lo avvertivamo… anche perché ben presto gli stipendi iniziavano a non arrivare… io purtroppo ho avuto alcuni problemi fisici che non mi hanno permesso di rendere al meglio. È una retrocessione che se ci penso, mi brucia ancora anche a distanza di anni, ma purtroppo era inevitabile visto il caos che regnava…”

“Un atto dovuto mettere la società in mora, senza però mai tirare indietro la gamba e dare comunque il massimo. Io ho cercato di vederla così. Bersellini, persona deliziosa anche dal lato umano, si è trovato a fare i conti con una situazione al limite e non ha retto ai primi sbandamenti. Cerantola, portatore di un calcio filo-zemaniano molto dispendioso sotto il profilo fisico, ha stravolto la fisionomia della squadra con scarsi risultati. Fogli e Janich hanno provato con tutta la loro esperienza a raddrizzare il timone e a ripristinare la giusta rotta, ma ormai eravamo alla deriva più totale”

La parola fallimento entra così a far parte della gloriosa storia rossoblu. Una stagione davvero da dimenticare per ogni tifoso che respira a pieni polmoni questi due colori, ma non per Troscè, dati alla mano la sua migliore in assoluto da professionista. Venticinque presenze condite da sei reti, secondo “cannoniere” della squadra alle spalle di Incocciati, a sorpresa davanti a Kubi Turkylmaz, fermo a quota cinque. Ovunque lo si colloca in campo – talvolta anche come terzino aggiunto – dall’inizio o a gara in corso, fa il suo dovere senza onore e impegno, come un vecchio ministro democristiano della Prima Repubblica. Nonostante alcuni acciacchi fisici che ne limitano il rendimento e l’impiego, resta tra i più positivi. Le reti segnate (vittime prescelte sono F.Andria, Pisa e Bari, mentre a Padova, in giornata di grazia, mette a segno una tripletta di ottima fattura – tale exploit fa scaturire l’interesse di alcuni club di A, tra cui, si narra, addirittura quello di Madame Juventus – portano punti in quasi tutte le occasioni e fanno muovere la classifica. Peccato non servano per evitare il salto in terza serie.

Anche se il Bologna risultava di fatto fallito con tanto di libri contabili in tribunale, io ero in scadenza di contratto, ma poiché la legge Bosman non esisteva ancora, non potevo andarmene liberamente con il mio cartellino in mano. Restavo patrimonio della società, per cui chi mi voleva acquistare doveva riconoscere alla stessa un parametro, ovvero una determinata somma, legata ad una serie di indicatori, come la mia giovane età, gli anni trascorsi da professionista, ecc. Il mio procuratore in quel periodo aveva avuto contatti con la Fiorentina appena retrocessa in B. L’affare era ormai in dirittura d’arrivo. Tuttavia, la cifra da sborsare non era così a buon mercato ma appunto a parametro, perciò alla fine non se n’è fatto più nulla e sono rimasto qua. Ben contento di ricominciare da zero e dare il mio contributo. Una piazza come questa non poteva stare di certo in C1 a lungo.

Dalle ceneri del fallimento risorge come la Fenice una nuova società, il Bologna FC 1909 – alla cui presidenza c’è Mr Idrolitina, ovvero il Cavalier Giuseppe Gazzoni Frascara insieme ad un pool di altri imprenditori locali con l’appoggio esterno del mondo cooperativo – con Pecci nell’inedito ruolo di direttore sportivo e Zaccheroni in panchina – già conosciuto da Carlo ai tempi dell’Interregionale quando guidava il Baracca Lugo – svariati giocatori della vecchia gestione epurati e tanti volti nuovi, dal libero vecchio stampo Casabianca al centrale Presicci, i due punteros Cecconi e Pazzaglia, l’esperto Ermini fino allo sfortunato ex golden boy granata Zago. Con il portiere Cervellati, Troscè, insieme ai vari prodotti del vivaio Tarozzi, Anaclerio, Campione e Traversa, è ormai tra i veterani del gruppo. A soli ventitré anni compiuti.

Nonostante i presupposti e le ambizioni di un rapido riscatto, sono più le difficoltà incontrate che i punti racimolati e certe magre figure lasciano il segno, come in quel di Leffe. A farne le spese ovviamente il tecnico romagnolo. Anche Pecci saluta la compagnia, dimissionario. “La squadra era stata assemblata in fretta e furia, per amalgamare certi meccanismi tattici ci vuole tempo e pazienza. Zaccheroni professava un calcio moderno ed evoluto, ma forse non aveva gli uomini adatti. E poi gli avversari quando dovevano affrontarci, era come se moltiplicassero le forze. Affrontare e battere il blasonato, nobile decaduto Bologna diventava nello stesso tempo stimolo e motivo d’orgoglio”.

Per risalire la china urgono rinforzi mirati in tempi brevi. E i costi lievitano. Anche e soprattutto per questo sul fronte societario emergono i primi dissidi gestionali tra la presidenza e il versante Coop. Si registra il ritorno del “figliol prodigo” De Marchi – soltanto sei mesi prima alzava al cielo la Coppa Uefa vinta con la Juve – ma è con gli innesti dell’ala Sacchetti, del centravanti Negri e di Ivano Bonetti – titolare tra le fila dei doriani un anno e mezzo prima nella jellata finale di Wembley tra Samp e Barcellona – che si inizia ad intravvedere un deciso cambio di passo. Alla guida ora c’è Edy Reja, uno che bada al sodo senza tanti proclami. “Una prodigiosa serie di vittorie consecutive ci ha permesso di colmare il gap con le altre concorrenti e di raggiungere la vetta della classifica. Poi sai, qualcuno di noi ha iniziato a soffrire l’altitudine e complice un prevedibile calo fisico collettivo, alla fine ci siamo ritrovati quarti. Playoff. E com’è andata a finire lo sappiamo bene. Io non sono il tipo che si lamenta dell’operato degli arbitri, ma certi errori e decisioni nel doppio scontro con la Spal ci hanno penalizzato non poco. Per fortuna il Como, anche se ha terminato il campionato ben distante da noi, ci ha in qualche modo vendicato”. Il bilancio personale di Carlo per la stagione 1993-94 è di venticinque presenze con una sola rete messa a segno, ovvero quella del pari a Prato. Lo si annovera tra i più positivi sotto il profilo del rendimento, ma è ancora e purtroppo C1, tremenda, dannata serie C1.

Per la stagione successiva non sono più ammessi errori o figuracce. L’obiettivo è uno solo, categorico e impegnativo per tutti. Il ritorno in B, senza se e senza ma. La scelta del nuovo tecnico cade su Ulivieri, noto per la sua durezza ed esigua morbidezza nei metodi e nei modi. Sul mercato opera l’ex Piper mundial Lele Oriali, a braccetto con un Gazzoni ormai ai ferri corti con le Coop. Nasce così una squadra formidabile, senza ombra di dubbio la più devastante dal punto di vista tecnico mai vista in terza serie. De Marchi comandante supremo della difesa, Bergamo in regia, Morello e Nervo sulle fasce. Senza dimenticare Tarozzi, il talentino Doni, Giorgio Bresciani, Dade Olivares o il bomber di scorta Cecconi. Veri lussi per la C1. C’è chi nel corso della carriera ha giocato poi per anni in serie A, arrivando a indossare la maglia della Nazionale o addirittura a disputare i Mondiali. Insomma, tutti pronostici sono rispettati e a cinque giornate dal termine la matematica dice di nuovo serie B. Finalmente.

Fa parte di questo straordinario gruppo anche Troscè, l’anello di congiunzione tra le gestioni Corioni, Gnudi e Gazzoni, tra un passato non troppo lontano più ombre che luci e un futuro ancora da costruire. Lui e il Dema sono i decani della squadra, per militanza rossoblu accumulata negli anni. Carlo disputa le prime partite da titolare – sua la rete del pari a Massa alla seconda giornata – poi, complice una serie di fastidiosi malanni, pian piano esce dalle rotazioni imposte dal tecnico toscano, per rientrare soltanto nelle ultime battute del campionato.

“Felice di aver dato il mio contributo, seppur modesto, per la risalita in B… ecco, mi sarebbe piaciuto farlo da capitano, ma la fascia è finita su un altro braccio, lo dico senza polemiche postume. Trovare posto in quel Bologna non era semplice, in ogni reparto e persino in panchina c’erano giocatori di qualità. Non a caso è poi passato dalla C1 alla A fondamentalmente con la stessa ossatura. In alcune partite gli avversari faticavano a superare la metà campo se non con dei lanci lunghi e il nostro portiere Marchioro ogni tanto si doveva inventare qualche numero da circo per non annoiarsi. Ulivieri ha fatto giustamente le sue scelte e ha avuto ragione. Perciò, a fine stagione ho chiesto espressamente di essere ceduto, con grande rammarico, ribadisco, perché Bologna era ormai diventata la mia casa. Ma essere un calciatore professionista significa anche cercare nuovi stimoli, spazi e opportunità, senza adagiarsi o accontentarsi.”

Troscè saluta tutti e fa le valigie alla ricerca di un posto al sole nell’Atletico Catania, sempre in serie C1. In Sicilia resta un solo anno, offrendo il suo consueto e concreto apporto. Non sarà così l’anno successivo alla Fermana, dove inizia il suo calvario. La doppia frattura della tibia della gamba destra lo costringono ai box per quasi tutta la stagione. Arriva la chiamata della Triestina in C2, la piazza giusta per ritrovare ampio minutaggio, condizioni fisiche accettabili nonché addosso una maglia da titolare. L’obiettivo di un rapido ritorno in C1 in seno alla società giuliana – il direttore sportivo è un certo Walter Sabatini, ci sono anche bomber Zampagna e l’idolo alabardato Gubellini ad alimentare sogni – annega tuttavia nella finale playoff contro il Cittadella, promosso grazie ad un miglior piazzamento in campionato. Una grave forma di meningite colpisce Carlo pochi giorni prima del ritiro e della firma sul contratto. I tempi di guarigione si allungano e addio Trieste. C’è il Gubbio ad attenderne il rientro. Appena una decina di presenze con i lupi umbri ed eccolo di nuovo zampettare tra i campi non sempre erbosi dei Dilettanti del profondo Nord per coltivare stavolta le ambizioni di promozione del Pordenone. La sfiga è sempre in agguato e si abbatte ancora una volta impietosa sul ragazzo di Recanati. Nel giro di pochi mesi si rompono tendine d’Achille e crociato. L’esperienza con la casacca neroverde dei ramarri friulani è pertanto l’ultima a livello professionistico, a soli trent’anni compiuti, all’alba del Terzo Millennio. Ne seguiranno altre negli anni successivi nelle serie minori marchigiane – Monturanese, Recanatese, Montegranaro, Appignanese, Bagnolo, Osimo – praticamente attorno a casa, soprattutto per amicizia e diletto.

Mi sono staccato dal calcio professionistico da oltre due decenni senza rimpianti. Anzi, a dir la verità, uno ne ho. Ovvero, non essere potuto rientrare nel calcio che conta avanti con gli anni, causa quel continuo susseguirsi di gravi infortuni e malanni. Mi sarebbe piaciuto terminare la carriera con una promozione in C o in B in qualche piazza dalla tradizione calcistica importante”.

Bologna e la sua gente ce li ho ancora nel cuore, ho respirato la serie A con quella maglia e certe emozioni non si dimenticano. Come quella volta che affrontammo il Milan di Sacchi in amichevole. Un milanista al cospetto dei propri idoli. Rijkaard era mostruoso in mezzo al campo, sempre a testa alta, lui come tanti altri in quella squadra di farcita di campioni. La città poi è meravigliosa. L’ho frequentata complessivamente per circa nove anni, anche dopo il mio addio ai colori rossoblu perché allora ero fidanzato con una ragazza bolognese, pur avendo abitato prima a Casalecchio e poi a Zola Predosa, nella villa dell’ex difensore rossoblu Ottoni. Ogni tanto mi capita di fare un salto, per salutare vecchi amici”.

A cinquant’anni suonati, cosa fa ora di bello Carlo? “Lavoro come family banker, ovvero promotore finanziario per conto del gruppo Mediolanum, sono sposato e ho due figli, ormai già grandi.” Ma il pallone ha ancora un ruolo importante per lui. “Il calcio dei miei tempi ha perso il suo lato romantico. Adesso le società sono in mano ai procuratori. E certe situazioni non fanno più per me. Preferisco dedicarmi ai ragazzi. Alleno nel tempo libero i giovanissimi della Junior Macerata. Cerco di trasmettere passione, il giusto atteggiamento da mostrare in campo, il rispetto per l’avversario, oltre alla mia filosofia di gioco che prevede un calcio propositivo e veloce. Noto che a molti giovani manca un certo spirito di sacrificio e la voglia di arrivare lontano. Senza sudore non si va da nessuna parte. Non mi stanco mai di ripeterlo. Motivo di grande soddisfazione per me è vedere qualche ragazzo che ho allenato affacciarsi in una prima squadra professionistica. Omar Khailoti, terzino della Primavera del Bologna nato proprio a Macerata, ha già esordito addirittura a San Siro contro l’Inter”.

I primi calci al Montelupone sono ormai ricordi lontani e sfuocati. I ricci castano chiari nelle foto di gruppo della squadra e nei poster conservati con cura sono volati via da un pezzo. Il sorriso e la serietà nel fare, no. Quelli non li porta via nessuno, nemmeno il tempo.

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