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Tutto calcio che Cola #54: Siamo tutti figli di Eduardo Galeano, mendicante di calcio – 14 apr

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Per andarsene ha scelto lo stesso giorno di un altro grande della letteratura del ‘900, Günter Grass, scrittore tedesco controverso. Come il collega si era occupato anche di altre cose oltre al calcio, raccontando con immensa poesia e in modo unico il suo Sud America così come Grass in modo unico aveva spiegato a chi di calcio vive e si nutre cosa aveva significato nella storia della Germania il “Miracolo di Berna”. Bei racconti di un calcio che non c’è più e che però è sempre attuale per chi si occupa di scoprire il passato e poi, affascinato, tenta di trasmetterlo agli altri. Solo che mentre Grass era stato personaggio controverso, amato da alcuni e detestato da altri, Eduardo Galeano in vita sua era rimasto inviso solo ai potenti e ai prepotenti, a chi odia la poesia e la bellezza che salverà – sempre, comunque – il mondo. Era fuggito da due dittature militari: entrambe lo avevano messo nella propria “lista nera”, sintomo evidente di quanto grande e coraggioso sia stato in vita, sempre pronto a raccontare la bellezza e le controversie del suo amato Sud America. Odiato dai militari suoi connazionali, da Videla, da Pinochet. Odiato da chi promuoveva morte e violenza. Il destino dei poeti.

Di questo magnifico scrittore uruguaiano, che aveva fatto appena in tempo a godersi gli ultimi lampi di una Nazionale di calcio che ha fatto la storia di questa disciplina assorbendo però le per lui fresche storie degli anni ’30, hanno parlato tanti senza dubbio più preparati di me. In effetti io lo avevo appena scoperto davvero, essendomi limitato in gioventù a leggerne saggi qui e lì o a sfogliare distrattamente libri in casa di amici più colti. L’opera che di lui possiedo è però il fondamento di quello che del calcio amo: “Splendori e miserie del gioco del calcio”, manifesto programmatico di chi vuole scrivere di fútbol o anche solo capirne. Lo si capisce dalla prima pagina, un inno alla gioia del calcio e dei suoi eroi, un omaggio alla bellezza che sarebbe davvero una gran cosa fosse compresa da tutti i protagonisti di questo gran circo.

Lo avevo scoperto da poco, come detto, ma era stato tanto bello quanto naturale: in fondo certi messaggi sono bellissimi anche nella loro semplicità, nel ricordare a tutti noi che il calcio è essenzialmente un pallone che rotola, che viene calciato da artisti che ci emozionano, era così un secolo fa ed è così adesso. Ecco perché non è azzardato sostenere che siamo tutti figli di Eduardo Galeano, mendicante di bel calcio al di là di qualsiasi bandiera e di qualsiasi colore. Una lezione importante che specialmente in questi giorni dove si parla di scontri tra ultras e rivendicazioni  andrebbe assimilata: amare il calcio vuol dire riconoscerne l’essenza e la bellezza, capire che lo stesso sentimento che ci porta ad amare una squadra fa si che lo stesso accada agli altri tifosi, con altre squadre, oltre ogni colore. Perché la bellezza del calcio è sempre sotto i nostri occhi, basta che noi ci ricordiamo di guardarla e riconoscerla. Penso che sia questo l’insegnamento più importante che ci ha lasciato Eduardo Galeano, una lezione fondamentale – e che sempre sarà attuale – non solo sul fútbol, ma sulla vita stessa. Se davvero amiamo il calcio, siamo tutti figli suoi.

(Simone Cola)

 

Dici Eduardo Galeano e pensi subito all’America Latina, alla sua America Latina. Quella di cui denunciava la condizione sfruttata e oppressa, una terra “condannata all’amnesia”, come scriveva in “Le vene aperte dell’America Latina”. Quel saggio di economia arrivò anche ad essere proibito in Uruguay, Argentina e soprattutto nel Cile di Pinochet. Ha lottato a lungo contro le dittature, ha racchiuso la rabbia e le repressioni di quegli anni nella sua scrittura. È stato anche costretto ad abbandonare prima l’Uruguay e poi l’Argentina a causa dei colpi di Stato avvenuti nei due Paesi. È stato la voce di quei popoli che inseguivano la libertà, e ci ha anche insegnato ad amare l’utopia, quella che lui scriveva con la U maiuscola e che definiva così: “A cosa serve l’Utopia? Serve proprio a questo: a camminare”.

Ma Galeano ha anche saputo raccontare il calcio, lo ha fatto con intelligenza, cinismo e ironia in un libro che già nel titolo racchiude un’importante antitesi: “Splendori e miserie del gioco del calcio”. Parlava del calcio di chi ha scritto pagine memorabili di questo sport, ma lo faceva sempre in relazione al Sud America e ai dittatori, citava la coppa del Mondo del 1978, quella in cui mentre Videla celebrava l’inaugurazione, a pochi passi da li “era in pieno funzionamento la Auschwitz argentina, il centro di tortura e di sterminio della Scuola di meccanica dell’esercito. E alcuni chilometri più in là, aerei lanciavano i prigionieri vivi in fondo al mare”.

Nel suo libro ha denunciato il calcio che si fa industria, quello che perde la bellezza della genuinità, portandoci verso uno sport che “rinuncia all’allegria, atrofizza la fantasia e proibisce il coraggio”. Un libro meraviglioso con evidente accento profetico se si dà uno sguardo al calcio di oggi. Galeano ha usato quello sport come metafora di vita di quei Paesi, tra i quali c’è il suo Uruguay: “Poche cose accadono, in America Latina, che non siano in rapporto, diretto o indiretto, con il calcio. Festa collettiva o collettivo naufragio, il calcio occupa un posto importante nella realtà latinoamericana, a volte il più importante dei posti, malgrado sia ignoto agli ideologi che amano l’umanità ma disprezzano la gente”.

Addio maestro.

(Andrea Bonomo)

 

“Sul muro di un locale di Madrid c’è un cartello che dice: È PROIBITO IL CANTO FLAMENCO. Sul muro dell’aeroporto di Rio de Janeiro c’è un cartello che dice: È PROIBITO GIOCARE CON I CARRELLI PORTAVALIGIE.

Il che vuol dire che c’è ancora gente che canta e c’è ancora gente che gioca.” 

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