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Giovanni Falcone: un uomo di sport, il nostro capitano

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Come ogni storia che si rispetti, anche quella di cui parleremo oggi ha una data ed un luogo. Palermo, anno domini 1952, quartiere Kalsa, oratorio dei Carmelitani Scalzi. Per la precisione, il campetto da calcio in cemento ivi annesso, punto di ritrovo dei giovani del rione popolare del capoluogo siculo.

 

Il protagonista principale è un ragazzino tredicenne, che giocando in questo lembo di terra, a pochi passi dal porto cittadino, sogna di imitare gli idoli di una città intera: Helge Bronée, il tanto talentuoso, quanto indisciplinato, talento danese; Cestmir Vycpalek, mezz’ala ceca che diventerà maggiormente famoso nella sua carriera da allenatore, alla guida, tra le altre della Juve, e per la parentela che lo lega ad un altro tecnico, il nipote Zdenek Zeman; Dante Di Maso, formidabile attaccante torinese che, con le sue reti, ha trascinato il Palermo a quattro tranquille salvezze di fila. A dire il vero Giovanni, questo è il suo nome, non ha uno spiccato talento. Gambe, fiato e soprattutto coraggio non gli mancano, ma i piedi, ad essere onesti, non sono dei migliori. Il campetto e le strutture annesse, comunque, saranno una palestra di vita per Giovanni, che farà dello sport, non solo come attività, ma anche come disciplina garante di valori, uno dei propri punti fermi: continuerà a dilettarsi tra atletica, ping pong e canottaggio, la sua vera grande passione, tanto da convincerlo a frequentare il rinomato circolo “Roggero di Lauria” con buoni risultati, prima che un infortunio, alla soglia dei 18 anni, lo costringa ad abbandonare ogni velleità agonistica per dedicarsi, pur concedendosi, nel tempo libero, qualche vogata, agli studi in Giurisprudenza. E fintanto che gli sarà consentito, frequenterà spesso le piscine della città per qualche ora di svago, tra un’indagine e l’altra.

 

Non solo: il campetto della Kalsa permetterà a Giovanni di conoscere tre personaggi chiave della sua vita. Un amico, un nemico e un futuro collaboratore. Il primo, Paolo, è un anno più piccolo di lui; il secondo, Masino (abbreviazione di Tommaso), è dodici mesi più grande. Qualche anno in più, invece, ha il terzo, anch’esso Masino, che bazzica spesso da queste parti. E al quale, di fianco alla parola collaboratore, sarebbe opportuno aggiungere il di giustizia. Trattasi di Paolo Borsellino, Masino Spadaro, futuro boss del quartiere, dedito principalmente al traffico di stupefacenti, e Masino Buscetta, uno dei maggiori, se non il più grande, pentito di mafia, colui il quale, con le sue testimonianze, diede di fatto vita al maxiprocesso di Palermo, che portò a più di 300 condanne, 19 ergastoli e oltre 2500 anni complessivi di reclusione.

 

Giugno 1979. L’estate impazza a Palermo, e una città intera, compreso Giovanni, ancora appassionato di calcio, è incollata al televisore. La squadra cittadina, militante in serie B, è clamorosamente arrivata in finale di Coppa Italia dopo aver eliminato Lazio e Napoli. Sarà proprio la città partenopea il teatro della partita contro la Juventus, ma gli occhi dei tifosi arrivano da tutto il mondo, persino dall’America. Dove, però, alle trame di gioco si mischia il palleggio di telefonate tra gli States e la Sicilia, con le quali si sta architettando un omicidio la cui vittima designata risponde al nome di Giorgio Ambrosoli, reo, nel suo ruolo di commissario liquidatore, di aver intralciato gli affari intercorrenti tra l’Italia e la mafia italoamericana, peraltro testimoniando di fronte all’FBI che indagava sul coinvolgimento di quest’ultima nel fallimento della Franklin National Bank e del Banco Ambrosiano.

 

Il gol di Vito Chimenti, dopo pochi secondi dal calcio d’inizio, illude tutti i tifosi di marca rosanero, e tutto sembra andare per il meglio quando, ad 8 minuti dalla fine dei tempi regolamentari, Bettega si infortuna ed è costretto a lasciare la Juventus in 10, a cambi ultimati. Il sogno della Coppa Italia, già sfiorata cinque anni prima, si spegnerà, nonostante la superiorità numerica, con il gol di Brio al minuto 84. Ai tempi supplementari, l’ex di turno Franco Causio deciderà la gara per il 2-1 finale. Freddo, cinico e spietato, così come il cittadino statunitense William Joseph Aricò, che l’11 Luglio dello stesso anno, a Milano, sparerà quattro colpi di pistola all’indirizzo di Ambrosoli, uccidendolo sul colpo. L’ufficio istruzione della sezione penale di Palermo cercherà di indagare su questo episodio e sull’uccisione del giudice Cesare Terranova, barbaramente ucciso sotto casa pochi mesi dopo, e sotto la guida di Rocco Chinnici sarà proprio il nostro Giovanni, nel frattempo laureatosi e divenuto magistrato di comprovata esperienza, ad occuparsi di alcune inchieste. Quelle, per intenderci, che faranno scoppiare il caso “Pizza Connection”, un’indagine che svelò definitivamente gli stretti legami tra la struttura sicula ed americana di Cosa Nostra, molto attiva specie nel traffico di stupefacenti. E tra i condannati figura anche un nome a noi già noto: quello di Tommaso, detto Masino, Spadaro.

 

L’eco della finale di Coppa Italia sarà un palliativo per un Palermo malaticcio che, cinque anni dopo, saluterà addirittura la Serie B retrocedendo, per la prima volta dalla fondazione, in C. Il punto più basso della storia della ultraottantenne società corrisponde, tuttavia, al colpo di scena nelle indagini portate avanti dal pool antimafia siciliano: Tommaso Buscetta decide di testimoniare contro Cosa Nostra, svelando i suoi segreti proprio a Giovanni. Il pentito, però, lo avvisa dei pericoli a cui sta andando incontro. “L’avverto, dottore”, confesserà, “dopo questo interrogatorio lei diventerà una celebrità. Ma cercheranno di distruggerla fisicamente e professionalmente. Non se lo dimentichi: il conto che ha aperto con Cosa Nostra non si chiuderà mai».

 

Queste parole segnano, di fatto, la fine di ogni libertà di Giovanni, compresa quella di nuotare. Anche quella di andare allo stadio, luogo che, invero, il magistrato non amava particolarmente, ma che, come ogni luogo di spettacolo, inclusi i cinema, avrebbe di fatto richiesto misure a titolo di cautela tali da sgomberare lo spazio più prossimo alla sua figura. Il confino all’Asinara, insieme ai suoi collaboratori più stretti, tra i quali Paolo Borsellino, anch’esso appassionato di sport e cicloamatore, indotto per motivi di sicurezza dopo gli omicidi dei poliziotti, nonché collaboratori, Montana e Cassarà, sarà il segnale tangibile di un pericolo tutt’altro che latente. Ma che, come faceva sul campetto della Kalsa, Giovanni continuerà a sfidare, con coraggio, fino al 23 Maggio del 1992.

 

Il Palermo sta lottando nuovamente per non retrocedere, e dopo la vittoria col Padova, si dirige dalla città verso Punta Raisi, da dove spiccherà il volo verso Roma e raggiungerà poi Avellino, teatro della gara del giorno successivo. Tragitto inverso, invece, sta compiendo Giovanni, di rientro a casa insieme alla moglie e agli uomini della sua scorta, tra i quali, in termini sportivi, va segnalato un giovane poliziotto, tale Vito Schifani, dotato di un discreto talento sui 400 metri piani, categoria in cui brilla. Purtroppo però, all’altezza di Capaci, a brillare con molto più fragore saranno i 500 chili di tritolo piazzati lungo il tratto autostradale dell’A29.

 

Si scoprirà, nei giorni successivi, che il pullman dei rosanero attraversò quel tratto di strada fatale a Giovanni Falcone, la sua amata, Francesca Morvillo, e a tre agenti facenti parte della scorta, Rocco Dicillo, Antonio Montinaro e lo stesso Vito Schifano, solo pochi minuti prima dell’esplosione fatale. I giocatori sapranno del vile attentato solo una volta giunti in albergo, e, ancora turbati dall’accaduto, scenderanno in campo, il 24 Maggio, al Partenio dove perderanno 2-1 e avviandosi verso una mesta ridiscesa in C. Nella successiva gara in casa, contro la Reggiana, il pubblico risponderà liberando al cielo una moltitudine di palloncini ai quali furono legati cinque striscioni, recanti i nomi delle vittime.

 

Sarà solo il primo di tanti gesti che legherà il nome di Giovanni Falcone al calcio palermitano, tra i quali uno dei più eclatanti è quello avvenuto nel 2013. Intercettazioni telefoniche svelano l’intercorrenza di un rapporto di amicizia tra il capitano della squadra, Fabrizio Miccoli, l’idolo della curva, e Mauro Lauricella, figlio del boss mafioso Antonino. Ma ad inorridire la città, non è tanto il legame tra i due, quanto più una locuzione proferita dal calciatore salentino. La parola fango, termine dialettale traducibile in completa aberrazione, o in più spartano, per ragionamento concatenato, pezzo di merda, viene associato al giudice nell’oramai celeberrima frase “Quel fango di Falcone”. Tutto ciò, pochi giorni prima del ventunesimo anniversario dalla sua morte.

 

Così, il 23 Maggio, come ogni anno, la popolazione si riunì nella consueta commemorazione presso l’albero sito in Via Notarbartolo, di fronte all’abitazione di Giovanni. E ai piedi dello stesso albero, venne posta, per iniziativa spontanea di un tifoso, una maglia del Palermo. Poi un’altra ed un’altra ancora, a formare una vera e propria montagna rosanero. E, a campeggiare su tutte, fu una recante la più semplice, quanto efficace, risposta. “Giovanni Falcone, il mio capitano”.

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