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Calcio

Heysel 1985, il tramonto dietro la curva

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Il grande mega schermo posto sopra le teste dei tifosi del Liverpool diceva “Benvenuti a Bruxelles”. Pareva un messaggio distensivo, di quelli che chiunque sia andato almeno una volta nella vita a una finale di Coppa dei Campioni avrà trovato sui depliant della finale, sul biglietto o in giro per la città ospitante. Il 29 maggio 1985 però, intorno alle 19, mentre il sole tramontava dietro allo stadio Heysel di Bruxelles, quel messaggio suonava solo come una beffa, un irridente quanto sinistro scherzo di un destino crudele.

A metà di quegli anni Ottanta il calcio viveva forse il suo periodo più intenso, e le due squadre che da lì a poco si sarebbero giocate la finale di Coppa Campioni, Juventus e Liverpool, ne erano due delle più fiere ambasciatrici. I bianconeri avevano perso due anni prima ad Atene contro l’Amburgo, il Liverpool era campione d’Europa in carica dopo aver trafitto la Roma ai rigori un anno prima. La Juventus era quella di Scirea, Rossi, Tardelli e Cabrini, che si erano iscritti in calce alla storia portando il Mondiale ’82 in Italia, il Liverpool era quello che in quel decennio battagliava con l’Everton di Howard Kendall in una sorta di disputa cittadina su chi dovesse vincere la vecchia “First Division”. Rush, Dalglish, Grobbelaar, il capitano Phil Neal, quel completo rosso fuoco che in anni difficili per la città inglese aveva dato un motivo per sorridere alla gente di Liverpool, alle prese con crisi, proteste, malcontento, disoccupazione. E violenza.

Troppo sbrigativo, seppur vero, dire che quella era l’età degli hooligans, riduttivo tirare in ballo l’alcool o la cieca violenza di quel periodo. Quella giornata soleggiata e calda che pareva essere iniziata sotto le migliori prospettive, sarebbe svoltata in peggio anche per colpa di una rete divisoria degna del peggior pollaio, di uno stadio dagli ingressi minuscoli, dai calcinacci che venivano via al minimo passo, e di una ripartizione dei biglietti assurda, grottesca, suicida.

Intorno a quell’ora in cui il sole tramontava, se ne andava anche la speranza di una festa, di un’intensa disputa tra due grandi squadre, di un altro dei mille capitoli del massimo trofeo continentale. Migliaia di tifosi del Liverpool assiepati nei tre quarti di curva, adiacenti al settore Z, una porzione laterale di quella stessa curva che suonò da angolo per un pugile che viene ripetutamente sbattuto e mortificato dall’avversario, senza via d’uscita. E quella rete da pollaio che viene giù, segnando il destino di 39 persone. Crolla il muretto di quello stadio fatiscente, inaugurato nel 1930 e mai più rinnovato, ponendo fine a molte delle vite di chi non sapeva che era andato in Belgio a morire per una partita di calcio. Le adiacenze dello stadio diventano ospedali da campo, i feriti caricati sulle transenne di metallo, le tende della croce rossa messe in piedi alla bene e meglio e che celano sotto di esse tante dolorose verità. Come quella che tocca ad Armando e Danilo Ragazzi, due muratori di Milano, che lì scopriranno il cadavere del loro cugino Domenico. O come Beatrice Martelli, che nella sua casa di Torino assiste in diretta tv a un inferno che si porterà via suo figlio Franco.

Già, perché intanto Bruno Pizzul deve affrontare probabilmente la più difficile delle sue telecronache. La festa è ormai annullata, l’inferno si è impossessato dell’Heysel e la polizia entra sulla pista di atletica circondando il campo, mentre i tifosi juventini dalla parte opposta vogliono fare un sol boccone degli inglesi. “Red animals”, dice lo striscione che compare nelle loro mani. Francesco Morini, dirigente del club all’epoca, racconta: “Quando uscimmo in campo per il giro di ricognizione, i tifosi vennero da noi. C’era una situazione surreale: alcuni venivano da me per chiedermi l’autografo o una foto, altri dicevano ‘non bisogna giocare, ci sono dei morti!’. Non si capiva davvero nulla”. A breve, tutti vestiranno maglietta e pantaloncini, perché “La notizia più triste è che la partita si giocherà”, avverte Pizzul. Che al fischio d’inizio, in forte ritardo, alle 21.40, annuncia: “La commenterò nel modo più asettico possibile. E’ una partita che si gioca solo per ordine pubblico”. Scirea e Neal, i due capitani, salgono in cabina di regia e lanciano un messaggio a chi ancora sta aspettando, disorientato, di capire come finirà quel pomeriggio d’inferno. “Non reagite alle provocazioni, state calmi. Giochiamo per voi”, le calde parole del capitano juventino.

Come finisce, si sa. Boniek dirà candidamente di essere caduto fuori area, in occasione del fallo da rigore trasformato da Platini, che consegna il trofeo, malcelato, al club bianconero, che lo vince per la prima volta. Ma per molti di loro non è una vittoria. Le inglesi verranno squalificate dalle coppe europee per cinque anni, al Liverpool toccherà un anno in più. Nel 1989 il contrappasso sarà ugualmente doloroso: a Hillsborough, stavolta non per colpa dell’esuberanza di tifosi inferociti, 96 tifosi del Liverpool periranno in occasione della semifinale di Coppa d’Inghilterra tra i reds e il Nottingham Forest. Nel 1990 invece, il Milan giocherà all’Heysel un turno di Coppa Campioni contro il Malines. Finisce 0-0 ma non è il risultato che interessa: prima della partita, sotto al settore Z, il capitano del Milan posa un mazzo di rose, vincendo anche la resistenza di qualche dirigente Uefa che non era dell’idea di permettere questo gesto. Ed è soprattutto questo un capitolo ancor più deprimente di tutta la vicenda: una tragedia che in tanti hanno cercato di insabbiare e dimenticare. Jean-Philippe Leclaire, reporter dell’Equipe, il giornale che inventò la Coppa dei Campioni, ne ha fatto un libro: “Heysel, la tragedia che la Juventus ha cercato di dimenticare”. E invece no, meglio non farlo. Sono passati trentacinque anni, quello stadio è stato totalmente ricostruito, in colpevole ritardo, e solo una targa omaggia i fatti di quel 29 maggio. Serve di più. A Bruxelles, quel giorno, abbiamo perso tutti, senza distinzione di bandiera. 

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