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Calcio

Il Metodo Vincente # 1: Rosso come il fuoco

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Gli occhi erano divenuti rossi, per via di quel fumo che, fusosi con le nuvole basse che sovrastavano il cielo della sua Torino, aveva reso l’aria irrespirabile. E nel contesto di un volto quasi cianotico, solcato da sottili gocce di pioggia tra le quali faceva capolino qualche lacrima, ben lontana da quella rigidità quasi militare che lo aveva reso celebre negli anni antecedenti il secondo conflitto mondiale, quegli occhi facevano paura.

Tuttavia, il ruolo di amico, mentore, padre putativo, doveva necessariamente lasciare spazio alla professione di giornalista, già portata avanti da anni nella redazione de La Stampa, storico quotidiano della città sabauda.

L’indomani, il 5 Maggio, il trafiletto a pagina 2 avrebbe portato la sua firma. Così, affranto dal dolore, salì tremolante le scale di casa e affogò il dispiacere in un bicchiere di Bourbon, bevanda importata dagli americani insieme al jukebox, al flipper, ed altre mode che stavano prendendo piede in quegli anni.

Fu il suo stato quasi confusionale a spingerlo a bere, in quel momento. Lui che, al massimo, da buon piemontese, usava concedersi appena mezzo bicchiere di buon Barolo a tavola. E difficilmente concedeva il medesimo privilegio ad uno dei suoi giocatori.

Quell’uomo, infatti, non era solo un giornalista, ma anche un ex impiegato alla Pirelli e, soprattutto, un allenatore di calcio. Anzi, un grandissimo allenatore di calcio, tra i migliori della sua epoca, capace di tirare fuori qualsiasi cosa dai propri sottoposti, grazie all’utilizzo di un metodo di lavoro che traeva origine dall’esperienza vissuta in prima persona al fronte, durante la Grande Guerra. E il suo sentirsi fedele servitore della Patria nella vita di tutti i giorni si traduceva in frequenti narrazioni sulla resistenza sul Piave. Si narra addirittura che, nel 1938, poco prima di partire per la Francia per un importante torneo internazionale, portò la sua squadra in visita al Sacrario di Redipuglia, eterna dimora di migliaia di caduti alle armi, affinché essa potesse trarre vigore da una simile esperienza.

Quel giorno, però, era diverso. Lo sconforto aveva preso piede su tutto il resto già da qualche ora, mentre si apprestava a sedersi sulla scrivania per redigere qualche riga non tanto su ciò che aveva visto, ma più su cosa aveva vissuto. Così, mentre le ultime luci del giorno illuminavano ancora la città, e sulle colline sovrastanti le ultime fiammelle cominciavano a spegnersi definitivamente, Vittorio Pozzo cominciò a mettere per iscritto le sue strazianti memorie.

 

 “Il Torino non c’è più. Scomparso, bruciato, polverizzato”.

 

Alle 17.05 del 4 Maggio 1949, la più bella squadra di calcio d’Italia terminò la sua folle corsa sulla fiancata sinistra della Basilica di Superga, a pochi chilometri dall’arrivo.

Ne passavano tanti di aerei da quelle parti, giorno per giorno. Talmente tanti che i frati del convento, ormai, ci avevano quasi fatto l’abitudine. Prima di scendere al Campo Aeronautica d’Italia, infatti, i piloti usavano fare un picco sopra la Basilica, un ultimo giro.

Niente di strano dunque, apparentemente. Alla stazione radio, venti minuti prima, il comandante aveva comunicato di volare a quota 2000 metri, già al di sotto delle nubi, all’altezza di Savona. Man mano che ci si avvicinava alla Mole, però, la visibilità tendeva ad abbassarsi. Alle 17.02 l’ultima comunicazione dalla città invitava alla prudenza, date le raffiche di vento e la nuvolosità in aumento. La risposta affermativa sarà l’ultima proveniente dall’apparecchio. Poi, il frastuono, che fece sobbalzare i frati riuniti in preghiera, spingendoli a precipitarsi fuori per vedere una vera e propria Apocalisse.

Nemmeno il sollievo per non essere salito su quel volo maledetto tranquillizzava Pozzo. Soltanto Ferruccio Novo, presidente del club granata con il quale l’ex ct aveva avuto qualche battibecco, gli impedì di essere parte della spedizione. Sull’aeromobile diretto a Lisbona, città nella quale il Toro avrebbe affrontato il Benfica, avrebbero trovato posto solo tre giornalisti: due per la carta stampata e uno per la radio. Se la presenza di Casalbore, direttore di Tuttosport, non poteva essere messa in discussione, lo stesso valeva per Nicolò Carosio, voce ufficiale del calcio italiano. Per l’ultimo posto disponibile, riservato alla Stampa, Novo fece espressamente il nome di Luigi Cavallaro, adducendo come motivazione la grandissima abilità nello scrivere di calcio. Obiettivo primario, in realtà, era quello di screditare il vecchio amico, divenuto personaggio sgradito nell’ambiente societario.

Pozzo,  tuttavia, non fu l’unico a dover disertare la partita: Carosio, a causa della Comunione del figlio, rinunciò al viaggio, sostituito da Tosatti. E anche lo stesso Novo, alla vigilia della partenza, fu colpito da un attacco influenzale che lo costrinse a letto. I tre avrebbero atteso la squadra al ritorno, accontentandosi della cronaca giunta dal posto.

Quando, alle 17.30, nella redazione torinese de La Stampa, il direttore bussò alla porta del giornalista-tifoso rimasto appiedato, non ebbe il coraggio di dirgli cosa era appena accaduto, ma si limitò ad un “Devi andare a Superga. Il Torino ha bisogno di te.

Che rivincita personale, pensò un Vittorio Pozzo galvanizzato dalla richiesta. Con in testa il solo pensiero dell’opportunità di sbeffeggiare pubblicamente Novo, a bordo della sua Topolino, si diresse verso la cima del Colle in compagnia di un fotografo. Sulla strada, un fiume di gente diretto verso un mare di nebbia di un colore indefinito, tra il grigio e il nero. Arrivare ai cancelli fu un’impresa ardua, e sulla linea del traguardo il portamento del vincitore, a petto in fuori, si tradusse nel cedimento muscolare tipico del marciatore sfinito. Il fuoco che ardeva nelle viscere fu spento da una secchiata d’acqua gelida.

La carcassa del velivolo giaceva in lontananza, mentre uno pneumatico in fiamme colorava l’orizzonte. E lì, stesi per terra, appena coperti da un lenzuolo, i ragazzi. I suoi ragazzi. Diversi conservavano ancora lo stesso portamento che avevano in vita, altri, martoriati, erano pressoché irriconoscibili. Non per lui, però: identificò tutti. Chi dai vestiti, chi dagli anelli, chi dalle scarpe.

Bacigalupo, Ballarin, Maroso, Grezar, Rigamonti, Castigliano, Menti, Loik, Gabetto, Mazzola, Ossola. L’undici della sua ultima nazionale, praticamente. E il rancore covato scomparve del tutto di fronte al tutto, e al nulla, che era ai suoi piedi. Nel silenzio generale, parlavano solo due, grandi, occhioni arrossati.

 

(CONTINUA)

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