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Calcio

L’occasione perduta. Urbano Cairo ed il Torino F.C. – 21 gen

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Toro-Milan, prima dominata e poi buttata via malamente dai nostri ragazzi, è finita da poco più di un’ora. Dopo aver rivolto al cielo tutte le imprecazioni del caso e dopo essermi congelato per tutta la sera là fuori, me ne sto adesso al calduccio in quella che fu per quasi trentacinque anni la mia cameretta: tutto è praticamente rimasto come lo lasciai undici anni e mezzo fa quando, una sera di agosto, abbandonai per sempre questa stanza, questa casa, questa città. Ci sono le stesse foto di ciclisti. C’è lo stesso poster degli Invincibili caduti a Superga. C’è lo stesso calendario, fermo sempre sulla medesima pagina: quella in cui si vede Mondonico che, la sera della finale di Coppa Uefa perduta ad Amsterdam, alza la sedia al cielo per protestare non solo per un rigore non dato, ma contro tutte le ingiustizie del mondo che, quella volta come sempre, stavano colpendo il suo Toro. Il mio Toro.

Mi infilo in quello che fu il letto della mia infanzia, della mia adolescenza e della mia giovinezza: il letto in cui passai notti insonni prima degli esami. Il letto in cui, avviluppato nella bandiera granata che qualche mese prima io e gli amici avevamo decorato con le stelle d’Europa, faticai a prendere sonno dopo che il mio Toro aveva eliminato dalla Coppa Uefa niente meno che il Real Madrid. Il letto delle notti di rabbia e lacrime dopo le tante retrocessioni, e delle notti gioiose dopo le effimere promozioni, come quella  del giugno 2005: un caldo soffocante in quello stadio, la finale playoff,  la sconfitta interna per 1 a 0 col Perugia che però, dato il 2 a 1 per noi dell’andata, significava serie A. Mister Zaccarelli portato in trionfo. Io ed i miei amici in giro per la città a festeggiare fino a notte fonda.

Una gioia grande. Una gioia effimera. Pochi giorni dopo inizia a correre voce che i soldi per iscriversi alla serie A non ci sono. Il patron Cimminelli presenta una fidejussione che si rivela poi essere fasulla. Il Torino non solo non riesce ad iscriversi alla serie A, ma rischia di sparire dal calcio, anzi di fatto ad inizio di agosto cessa di esistere. Dopo trentacinque anni di vita, io lascio la mia città ed il mio Toro muore.

Un vero e proprio segno del destino, penso. 

Nella notte insonne continuo a sfogliare l’album dei miei ricordi. Essi appaiono davanti a me come tante fotografie. Tanti fotogrammi che riassumono e raccontano la storia di questi ultimi undici anni di vita trascorsi lontano dalla mia città, ma sempre vicino anche fisicamente alla mia squadra ed al mio mondo.

Il primo fotogramma, che mi appare un po’ sfocato per via del tempo trascorso, è quello di un uomo sorridente che si affaccia da un balcone. Con le mani protese verso l’alto saluta una folla festante che lo osanna come si fa con un Papa appena eletto. D’altra parte, il suo stesso nome ha un che di papale e si presta alle ironie dei rivali, ma anche ad alimentare le nostre speranze di popolo che non ha mai smesso di sognare. Non sappiamo moltissimo di lui, se non che ha lavorato per anni alle dipendenze di Berlusconi e che poi si è messo in proprio fondando una casa editrice abbastanza nota, anche se non certo di primissimo piano. Non è un Napoleone ma a noi, a tutti noi, appare come l’uomo giusto. Alcuni si sono anche esposti molto per permettergli di sbaragliare la concorrenza rilevando, senza sborsare un centesimo, la società da un gruppo di volenterosi che l’avevano mantenuta in vita in quelle settimane convulse. Ci sembra l’uomo giusto, non tanto per le solite promesse che escono dalla sua bocca (riportarci in Europa in pochi anni e ricostruire lo Stadio Filadelfia, il nostro tempio, la nostra casa) quanto perché finalmente, dopo tante figure improponibili, ci sembra di aver a che fare con un individuo quasi normale, che non fa proclami assurdi ma che sembra finalmente il personaggio in grado di regalarci la dignità perduta dopo anni ed anni di anonimato trascorso a fare “l’ascensore” tra la A e la B. E di riportarci ai fasti di un passato ormai sempre più lontano, ma mai dimenticato.

Ma ecco che il primo fotogramma sfuma rapidamente. Il faccione dell’uomo incravattato di prima lascia il posto all’immagine estiva di uno stadio pieno all’inverosimile. Sessantamila persone urlanti. Sessantamila persone festanti. E’ il giugno del 2006: in poco più di una settimana, nel settembre precedente, “Papa Urbano I” ha saputo costruire una squadra che non solo ha ben figurato in un campionato cadetto al quale sembrava non potesse manco iscriversi, ma che è riuscita a qualificarsi per i playoff per la promozione. Nella finale di ritorno, dopo aver perso per 4 a 2 a Mantova, riesce a vincere per 3 a 1. E’ la serie A, questa volta per davvero! E’ l’apoteosi! E’ la gioia sublime di un popolo, anche perché sull’altra sponda cittadina, quella che ci ha quasi sempre dominati ed umiliati, se la stanno passando malissimo: non avrei mai creduto e sognato in vita mia di vederli giocare in serie B. Invece è quello che accade in quella gloriosa e pazzesca stagione 2006-2007: noi in A dopo tre anni di purgatorio, loro finalmente e giustamente in serie B. Un miracolo. Un sogno che si avvera. Se avessi dovuto morire forse quello sarebbe stato il momento migliore per farlo (non me  ne voglia mia moglie, impalmata pochi giorni prima dell’esordio gobbo in serie B).

Ma sono sopravvissuto, e allora ecco che a quella serata festante di giugno si sovrappongono molti altri fotogrammi: facce di giocatori dai nomi altisonanti ma dal rendimento scadente, come Barone, Fiore, Pancaro, Recoba. Un paio di salvezze stentate. Le prime contestazioni alla dirigenza. E infine ecco il terzo fotogramma, bello nitido: quello di una domenica di fine maggio del 2009. Non si gioca più al Delle Alpi, ormai destinato ad altri fini, ma al vecchio Comunale adesso diventato Olimpico. Milito segna sotto la Primavera portando in vantaggio il Genoa ed esulta come un forsennato. In campo scoppia una rissa furibonda, mentre sugli spalti succede di tutto ed il gemellaggio storico con i rossoblu genoani si rompe. Il Toro di Urbano Cairo retrocede. Il Bologna, che due settimane prima aveva di riffa o di raffa strappato un pari in quello stesso stadio, si salva. Ci Ci sono insulti per tutti: per il Genoa, reo di averci condannati alla retrocessione, per il Bologna colpevole di essersi salvato al nostro posto, qualcuno anche per il Presidente, il quale però rimane ben saldo al comando della truppa sostenendo di aver imparato la lezione e promettendo, naturalmente, un pronto ritorno in serie A.

Nel quarto fotogramma compare una sciarpa diversa da quella granata.Una parte della tifoseria organizzata, infatti, decide di contestare apertamente la dirigenza e, per farlo, sceglie simbolicamente di usare colori diversi dai nostri tradizionali. Lo slogan è “Nero e oro finché non vendi il Toro”. Molti tifosi espongono vessilli con i colori storici della FC Torinese, società dalle cui spoglie, nel 1906, nacque il Torino Calcio. La contestazione va avanti per alcuni anni, ma ha il difetto di non essere compresa dalla maggior parte della tifoseria “moderata”. Chi va abitualmente allo stadio assiste a scene raccapriccianti come la Curva Maratona che intona cori di contestazione, e gli altri settori dello stadio che fischiano e contestano i contestatori. La tifoseria è più che mai divisa e il presidente riesce a far leva su questa frattura per rimanere sempre saldamente al comando, nonostante risultati sportivi non certo esaltanti. Nel 2011, dopo sei anni di presidenza, il bilancio  del Torino di Cairo (Urbano I è ormai un ricordo lontano) è il seguente: tre stagioni di B con una promozione ottenuta, due salvezze stentate, una retrocessione. Una gestione che definire deficitaria è un complimento.

Ma eccoci al quinto fotogramma.Fine maggio del 2012. Un pullman scoperto. Una squadra festante a bordo. Una folla enorme che, dopo aver assistito sotto la pioggia al match decisivo vinto col Modena, si ritrova là dove ci sono le macerie del vecchio Stadio Filadelfia  per festeggiare l’ennesima promozione. Il pullman scoperto si muove a passo d’uomo e dietro di esso una folla immensa di vecchi, adulti, uomini, donne, bambini. Un popolo che pare aver ritrovato la speranza. “Questa è la volta buona, finalmente il Presidente ha imparato la lezione!” è il parere condiviso da quella folla festante. E ancora: “Questa è l’ultima volta che festeggeremo la serie A, perché non ci saranno altre retrocessioni!”. Avevamo ragione. Avevamo assolutamente ragione, ma…

Sesto fotogramma.Estate 2014. A maggio il Torino di Ventura, pareggiando per 2 a 2 anche a causa di un rigore sbagliato da Cerci al novantatreesimo, ha appena perso in uno stadio Franchi addobbato a festa in nostro onore (siamo gemellati con i Viola)  la possibilità di disputare la successiva Europa League. Al posto del Toro in Europa dovrebbe andarci il Parma che, per i noti problemi, non riesce ad iscriversi alla coppa. Una volta tanto la fortuna è dalla nostra. Veniamo ripescati. Al turno preliminare disputato ad inizio agosto contro gli Svedesi del Brommapojkarna, l’entusiasmo è alle stelle. Il Toro, dopo vent’anni di digiuno, è finalmente tornato a giocare in Europa. Purtroppo Ciro Immobile, uno dei protagonisti della buona stagione precedente, se ne va al Borussia Dortmund. Ma la speranza che Alessio Cerci, l’altro protagonista di quella stagione, rimanga ancora con noi è concreta. I giorni passano e nulla accade, segno che ormai il Presidente ha deciso di tenerlo: anche le sue dichiarazioni appaiono tranquillizzanti. E invece…ecco che l’ultimo giorno di mercato, Alessio Cerci se ne va all’Atletico Madrid e viene sostituito nientemeno che con Amauri, un quasi ex giocatore per giunta dal passato bianconero. Ancora una volta l’entusiasmo si affloscia. Ancora una volta, come già nel 2006, si ha la sensazione che quello che poteva essere non sia stato, che alle nostre speranze sia stato dato un calcio ben assestato. La tecnica usata per giustificare la cessione è la solita, ormai collaudata: “non è colpa mia se il giocatore voleva andare in un grande club…io ho provato ad offrire di più ma non c’erano margini di trattativa…” ci racconta il Presidente. Molti tifosi sono disposti a dargli ancora credito. Altri non riescono proprio più a fidarsi di lui, ma vengono messi a tacere dalla massa. “In fondo la squadra non è così male…Ventura è una garanzia…”.

Già. Ventura. Quello che ci ha effettivamente tirati fuori dalla melma della serie B. Ma anche quello per cui ogni volta che un giocatore buono indossa la nostra maglia finisce  per “meritare una grande squadra” (cosa che ovviamente non siamo noi, almeno per il Mister). Quello che “ricordiamoci da dove veniamo” ovvero da Cittadella, e non da Superga, dall’ultimo scudetto o dalla finale di Uefa con l’Ajax. Ventura che “a Torino è difficile fare calcio perché l’ambiente è ostile”.  Ventura, l’uomo che prende giocatori scarsi o decotti e li trasforma in mezzi fenomeni, ma non affinché essi facciano squadra per noi, ma perché vengano ceduti per incamerare denaro.

Ventura, e si arriva al settimo fotogramma, che oltre ad essere l’uomo della promozione è anche l’Eroe di Bilbao. Tremila persone in delirio quella sera. Una città in festa, perché nessuno è più bravo a festeggiare dei Baschi se gli sei amico. E noi siamo loro amici e lo saremo per sempre. Bilbao sogno. Bilbao delirio. Bilbao capolinea. Il Toro di Ventura è morto a Bilbao, o forse un paio di mesi dopo al derby vinto a vent’anni di distanza dal precedente. Ammesso che vincere un derby, o conquistare un ottavo di Coppa siano di per se grandi risultati. Allenerà ancora da noi per oltre un anno subendo una ventina di sconfitte, di cui alcune imbarazzanti ed umilianti. E ogni volta che qualcuno proverà ad alzare il dito per criticarlo, sia lui che i suoi sostenitori saranno pronti a citare come un mantra Bilbao, evocando un fantomatico processo di altrettanto fantomatica crescita. Ma il tempo passa, e il ricordo di Bilbao si allontana. Mentre al settimo posto della stagione 2013-2014 fa seguito il nono di quella successiva, e il dodicesimo della scorsa. Una crescita quanto meno sui generis.

Di sicuro nel frattempo crescono il portafoglio ed il prestigio del Presidente.

E così veniamo agli ultimi tre  fotogrammi. Il terzultimo è formato da molte facce e da una montagna di denaro. Ogbonna…Immobile…Cerci…Darmian…Glik…Bruno Peres…Maksimovic. Tutta gente che ha dato il suo bel contributo da noi e che è stata ceduta rimpinguando le casse del Torino. Che squadra avremmo se ne avessimo tenuti anche solo la metà. Sullo sfondo si intravedono poi altre facce che inizialmente appaiono sfocate ma che poi si definiscono meglio. Ora si vede nettamente il profilo da combattente duro e puro del “Gallo” Belotti…poi quello di Zappacosta…e di Barreca….e di altre figure meno definite ancora. Si vede anche molta gente sullo sfondo pronta ad applaudire il presidente per le plusvalenze ottenute e a bollare i giocatori come mercenari, e i tifosi che criticano come gufi e gobbi. Montagne di denaro in entrata. Qualche soldino investito in giocatori per lo più a basso costo e dall’ingaggio contenuto. Nessun titolo sportivo. Quasi zero denari investiti nel Filadelfia che a breve dovrebbe sì rinascere come “promesso” dal presidente al suo insediamento, ma solo grazie all’interessamento di privati e dell’amministrazione pubblica. Intanto il Torino continua a non avere una sede, il Museo della Memoria Granata si trova fuori città ed è gestito solo da volontari che nulla c’entrano con la società, ci si allena in un centro sportivo di proprietà della Fiat, quindi della concorrenza.

Il penultimo fotogramma vede ancora una volta la faccia sorridente di Urbano Cairo. Stavolta, diversamente da alcune immagini del passato, non tiene tra le mani la nostra maglia, ma una diversa egualmente simbolica ed importante. E’ la Maglia Rosa del centesimo Giro d’Italia, il prossimo. A differenza della foto del 2005, il “nostro” non è solo, ma si trova in compagnia di Vincenzo Nibali ex vincitore del Giro e di Andrea Monti, direttore de “La Gazzetta dello Sport”. Da qualche mese Cairo è il capo di RCS, quindi del “Corrierone” e della “Gazza”. Il che fa del già proprietario della Tv “La 7” il principale editore italiano del nostro tempo. Niente male per l’ex braccio destro di Berlusconi. Per l’editore semi sconosciuto che nell’estate calda del 2005 aveva acquistato il Torino senza di fatto pagarlo. In pochi anni, il semi sconosciuto alessandrino è diventato uno degli uomini più potenti ed influenti d’Italia. E chi l’avrebbe mai pensato quella sera di inizio settembre quando si affacciò trionfante dal balcone del Comune di Torino?

E veniamo all’ultima immagine, la più recente. E’ il film della partita di stasera. Ma non solo di essa, bensì di molte partite del Toro di Sinisa Mihajlovic, bravissimo ad evocare lo spirito tremendista del Toro che fu, senza però avere gli uomini necessari per trasformare le parole in fatti. Questo è un Toro a metà che, Belotti e forse Hart (che però è in prestito) a parte, è pieno di mezzi giocatori dal grande talento, incapaci di offrire continuità. Una squadra incompleta, che regala scampoli di grande calcio, alternati a passaggi a vuoto incredibili. Una squadra mal costruita in estate, quando sarebbero probabilmente bastati due acquisti mirati per fare un salto di qualità decisivo che ci permettesse di inseguire per davvero l’Europa, e non solo a parole. Una squadra che probabilmente non verrà rafforzata nemmeno in questa sessione invernale di mercato. Una squadra che, così come la prestazione di stasera, è il paradigma esatto dell’intera presidenza Cairo: buone premesse, una partenza promettente, tante illusioni, la progressiva disillusione, la delusione finale per l’ennesima occasione buttata via.

Perché questo è stata nel complesso l’era di Cairo al Torino, anche se taluni tra i nostri tifosi continuano a venerarlo come il “salvatore della patria”: un’enorme occasione perduta. La nostra è sempre stata una piazza che alterna momenti di grande abbattimento ad attimi di esaltazione. Ebbene: la presidenza Cairo è da sempre un vero e proprio distruttore automatico di sogni e di speranze, come dimostra anche il numero degli abbonati che, durante questi anni, è passato dai 19.000 della stagione 2005-2006 agli 11.500 di quella attuale. Ogni volta che si ha la sensazione di poter mettere fuori la testa per fare definitivamente il salto in avanti verso un futuro migliore, succede qualcosa che ci riporta alla realtà nuda e cruda fatta di risultati altalenanti e di mediocrità. Di promesse non mantenute. Di plusvalenze.

Non v’è dubbio che, se la si guarda nel suo complesso, come non mancano di sottolineare i suoi non rari fans, la Presidenza Cairo sembra averci definitivamente portati fuori dalla melma in cui eravamo piombati negli anni Novanta e Duemila. Difficilmente Cairo ci porterà al fallimento come era accaduto nel 2005. Ma è altresì vero che il fatto di sventolare lo spauracchio del fallimento permette all’attuale dirigenza di portare avanti uno pseudo progetto in cui non si vede nessuna crescita se non quella delle entrate economiche, peraltro investite solo in parte. Un settimo posto come massimo in undici stagioni di presidenza non può essere considerato un risultato né buono, né sufficiente, ma va raccontato per quello che è: un fallimento sportivo. Il fatto che il prestigio ed il potere del presidente siano nel frattempo aumentati non fa che incrementare la rabbia per quello che potrebbe essere ed invece non è.

Mi addormento con la “carogna” addosso, non tanto per la mezza magra di stasera, ma per il misero bilancio di questa presidenza che, salvo sorprese o colpi di testa improvvisi, continuerà a crogiolarsi nella mediocrità spacciata per grandezza.

Do un’occhiata per l’ultima volta al poster degli Invincibili. Mazzola e compagni sembrano volermi dire qualcosa. Qualcosa che subito non capisco, ma che pian piano diventa chiarissimo. Mi dicono che loro appartengono al passato, un passato glorioso che, molto probabilmente, non tornerà mai più. Così come non torneranno più i tempi di “bandiere” e simboli come Giorgio Ferrini e Paolino Pulici. Ma mi dicono anche che quel passato vincente non può e non deve essere dimenticato. Fa parte di noi, come la sfortuna atavica che da sempre ci accompagna.

Mi dicono che è vero che da Superga sono ormai passati quasi settant’anni e che anche le immagini che raccontano la nostra ultima vittoria importante (lo scudetto del 1976) sono in bianco e nero.

Che è vero che il calcio è cambiato, anche se poi a dirlo sono proprio coloro che vorrebbero non cambiasse mai, e che chi è grande ora rimanga tale per sempre, senza dar spazio ad altri.

Ma è altresì vero che non possiamo e non dobbiamo rassegnarci al fatto che, mentre il “regno di Cairo fuori dal calcio” si ingigantisce, il Toro sia diventato una sorta di succursale delle grandi, che prende giocatori da riciclare, dà loro fiducia, e poi li cede magari alle stesse grandi che li avevano inizialmente scartati. Senza avere un progetto. Senza avere ambizioni.

Mi dicono infine che non dobbiamo mollare, non dobbiamo arrenderci finché avremo un filo di fiato e di speranza. E che abbiamo il dovere di continuare a lottare contro chi ci vuole convincere che questo presente che poco o nulla c’entra con la Nostra Storia gloriosa sia l’unico possibile per noi.

 

“Il Toro di Cairo è come una pianta di plastica, non muore mai ma mai fiorisce. Non ha bisogno di essere innaffiata, basta una spolveratina ogni tanto per farla apparire vera agli osservatori lontani o distratti. Accudirla non costa nulla anzi, c’è chi paga per vederla, convinto sia vera e, a volte, lo appare persino. Ti accorgi che è finta quando noti che non cresce, che la terra in cui è piantata è arida, che il padrone la usa come specchietto per le allodole. Però è un’imitazione fatta così bene che capiti attiri frotte di lombrichi” (Michele Monteleone, autore del libro “Orgoglio Granata”).

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