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Calcio

Tutto calcio che Cola – #03 – 02 Mar

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Ogni tifoso al mondo ha in antipatia quelle squadre “qualsiasi” che un giorno vengono acquistate da un eccentrico quanto ricco imprenditore che, a suon di milioni, le trasforma in corazzate per il proprio vezzo personale.
Naturalmente, questo fino a quando l’acquisto non riguarda la propria società preferita, in tal caso invece non esistono bandiere né morali ed è giusto così, poiché è naturale che un tifoso preferisca che la propria squadra lotti ai massimi livelli piuttosto che rendere conto di un “codice morale” che nel calcio non c’è più dai tempi della Pro Vercelli.

Indubbiamente i motivi che spingono certi magnati a buttarsi nel calcio sono diversi, e diversi sono anche gli esiti. La prepotente ascesa del Paris Saint-Germain è storia nota a tutti ed è quello che ogni tifoso sogna per la propria squadra: una proprietà che in poche stagioni mette insieme Ibrahimovic, Cavani, Lavezzi, Thiago Silva, Verratti, Menez, Thiago Motta e altri che ora mi sfuggono, sarebbe difficilmente criticabile. Peccato però che non tutti gli sceicchi siano uguali. Prendete ad esempio Abdullah Al-Thani, che del proprietario del PSG è addirittura parente: acquista il Malaga, promette mari e monti e poi, di fronte alla necessità di avere permessi per costruire un nuovo stadio, si disimpegna da un giorno all’altro. La squadra passa così dal giocarsi la Champions League 2012-13 (dove esce per un soffio contro i futuri finalisti del Borussia Dortmund) al non poter nemmeno partecipare all’Europa League di quest’anno, causa stipendi non pagati e multe dell’UEFA.
Un po’ la stessa cosa capitata all’Anži Machačkala, squadra della capitale del Daghestan, iscritta al campionato russo, e il cui sogno dura appena due anni: il tempo che serve a Sulejman Kerimov – controverso imprenditore amico di Roman Abramovich – ad acquistare la società, imbottirla di campioni (Jucilei, Diego Tardelli, Roberto Carlos, Dzsudzsák, Eto’o), affidarla a un santone come Guus Hiddink e poi scocciarsi e smantellare ogni cosa. L’Anži, che la scorsa stagione si giocava la vittoria del campionato, adesso è ultimo, una sola vittoria in ventuno giornate e una desolazione che possiamo solo immaginare negli occhi dei tifosi.

In Germania, invece.
Nel 1999 Dietmar Hopp, co-fondatore della SAP (una delle società leader nel mondo del software) acquisì il controllo della piccola squadra del suo paese, Hoffenheim. La squadra, nel giro di dieci anni, passò dall’anonimato della VI^ serie alla massima serie, la Bundesliga, dove stupì il paese concludendo al primo anno il girone d’andata nei primissimi posti. Quando Hopp si rese conto che il giocattolo stava diventando troppo costoso, smise con gli investimenti pesanti, non prima però di aver reso il club capace di autofinanziarsi. Da allora l’Hoffenheim naviga stabilmente in massima serie, con stagioni a volte buone e altre meno buone – nella scorsa ad esempio si è salvato con molto patimento – ma nessuno si sogna di contestare la dirigenza definendola “poco ambiziosa”. Volendo fare un parallelo con l’Italia, l’Hoffenheim potrebbe essere paragonato al Chievo, nel quale la Paluani non investe milioni ma a cui garantisce stabilità societaria e un futuro.

In questi giorni il Bologna FC è stato messo in vendita dall’attuale società, colpevole senza dubbio di aver navigato a vista e di aver preso numerose decisioni impopolari, ultima quella di cedere Alessandro Diamanti a mercato invernale ormai chiuso. È chiaro che la società rossoblù, ricca di tradizione e di trofei – pur se l’ultimo è arrivato nella notte dei tempi – possa interessare a molti. Bologna è una piazza importante in Italia, i suoi tifosi sono passionali e molto attaccati alla squadra: inoltre, l’astinenza non solo di vittorie ma più in generale di calcio “ad alti livelli” può portare davvero a un’esaltazione, a un fermento, che in città non si vede da anni, se e quando arriverà un acquirente che prometterà mari e monti.
Occorre tuttavia essere prudenti: non sempre chi promette poi mantiene; questo accade nel calcio e in ogni cosa della vita. Penso che più che la grandezza del portafogli di chi eventualmente subentrerà, dovrà essere misurata la sua serietà e la sua dedizione. Il calcio di oggi è business, ma una parte di passione deve sempre prevalere in queste cose, altrimenti si corre il rischio di sognare, e poi magari cadere. E scomparire.
Un rischio che – potreste dire – corre anche l’Inter con Tohir. Solo che il Bologna non è l’Inter, non ha lo stesso bacino d’utenza né gli stessi incassi da diritti tv e botteghini. Se Tohir dovesse andare male, è difficile ipotizzare assenza di acquirenti per la Beneamata.
Chi prenderà il Bologna, invece, dovrà essere valutato severamente. La città dovrà studiarlo, misurarlo, poi infine amarlo poco alla volta. Vedendo anno per anno, stagione per stagione, cosa succede e come.
A volte, a maggior ragione con l’imminente entrata in vigore del “Fair Play Finanziario”, per dormire sonni tranquilli non importa essere il Paris Saint-Germain, rischiando però al contempo di essere il Malaga oppure l’Anži. A volte basta essere un Hoffenheim. O anche un Chievo, che non a caso pur senza investimenti di livello si sta giocando la salvezza con onore e grinta proprio con il Bologna. Corsi e ricorsi. Del resto Fiorentina e Parma, o anche più in piccolo Verona, Torino e Atalanta, sono lì a dimostrare che per fare del buon calcio non sono necessari tanti milioni, ma basta avere un progetto serio e duraturo. Ecco, un progetto. Bologna e il Bologna lo meritano.

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