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La calligrafia del cinema: Pupi Avati tra cinema, identità e disincanto

Pupi Avati al Carpi Film Festival tra premi, riflessioni sul cinema e memoria personale. Un omaggio al suo stile inconfondibile, tra identità autoriale, bianco e nero e disincanto verso il presente.

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Un evento ricco di emozioni si prospetta oggi a Carpi, pronta ad accogliere uno dei protagonisti del nostro cinema, il celebre regista Pupi Avati. Al Carpi Film Festival il grande maestro sarà ospite per un doppio appuntamento imperdibile: alle 18.30 sarà presente all’Auditorium Loria dove intraprenderà con il pubblico un viaggio tra i suoi elementi essenziali di regia. Mentre alle ore 21.00 all’Arena di piazzale Re Astolfo gli verrà gli conferito il prestigioso premio Arti del CinemaLa capacità di raccontare storie unendo profonda sensibilità e malinconia, l’ambientazione nostalgica e un’accurata introspezione psicologica sono diventati i suoi segni distintivi. Un marchio inconfondibile nella storia del nostro cinema.

Calligrafia del cinema

Alla domanda: «Maestro, quali sono gli elementi essenziali della regia, il regista risponde che nascono innanzitutto dalla capacità di possedere una propria identità, un tono di voce distintivo, una sorta di calligrafia personale. La regia deve saper trasformare qualcosa di astratto in un racconto profondamente personale che prende forma solo nel momento in cui viene narrato attraverso un proprio modo espressivo. Il narratore può trovare la propria personalità e identità operando su carta, pellicola cinematografica o spartito musicale, solo in questo caso può individuare gli elementi essenziali.

Un maestro come ispirazione

Pupi Avati prosegue inoltre specificando l’importanza del ruolo di maestro. Secondo lui, infatti, è necessario trovare un modello che accenda una scintilla e un’illuminazione. Per lui è stato Fellini con a spingerlo a realizzare il suo desiderio di fare questo mestiere e di intraprendere così la strada della cinematografia. In seguito all’ispirazione c’è un ulteriore passo da fare: cercare la propria identità, trovare la propria voce e un metodo di narrazione che ti renda riconoscibile e distinguibile in mezzo ad altre personalità che cercano di emergere. Continua spiegando: «Quando uno spettatore entra in sala, vede tre minuti di un film e dice ‘questo è di Pupi Avati’. Questo significa essere riconoscibili».

Il cinema italiano secondo Pupi Avati

A proposito del cinema italiano, Pupi Avati sostiene che versa in una condizione complessa e delicata, segnata da una scarsa indipendenza operativa, sia sul piano organizzativo che istituzionale. Sarebbe necessaria la creazione di un ente specifico che si dedicasse interamente al cinema e alle arti audiovisive, mentre ancora oggi sono sotto la giurisdizione del Ministero della Cultura. Al contrario, in Francia, il settore cinematografico sembra funzionare. Rimane tuttavia inspiegabile come mai il nostro Paese non prenda esempio dal modello francese e non si comporti in modo analogo.

Il bianco e il nero, tra reale e irreale

Recentemente sono concluse le riprese de Il tepore del ballo, mentre l’anno precedente è stato distribuito L’orto americano. Tenendo in considerazione anche i lavori realizzati per la televisione, si tratta del suo 57esimo titolo. Un film a cui il regista, come egli stesso sottolinea, è particolarmente legato per una scelta estetica significativa: è il suo primo film girato interamente in bianco e in nero. Una scelta che è indice della volontà del suo autore di andare oltre alla realtà e fare spazio alla potenza immaginativa. Pupi Avati spiega in questo modo le sue sensazioni ed emozioni durante le riprese: «Mentre lo giravo mi sono reso conto che per la prima volta stavo facendo ‘cinema’ e non ‘semplicemente’ un film. Il cinema è un qualcosa tra l’irreale e il reale: il bianco e nero non è realtà, ti lascia la possibilità di immaginare, lascia libera la fantasia degli spettatori a differenza del colore».

Una componente autobiografica

Inoltre, il maestro rivela che nella sua opera è presente una componente intima e autobiografica che affonda le radici in un’eredità culturale profonda, quella contadina che segna sia l’autore sia il protagonista stesso della storia. Nel film emerge anche il rapporto che Avati ha con la morte. Un legame fatto di timore, ma anche di misteriosa attrazione. Il ricordo degli amici scomparsi, oltre 150, è custodito in una stanza della casa diventata per lui un appuntamento di preghiera. E’ un’occasione per ricordarli e per continuare a tenerli vicini. Prosegue infatti confessando: «Utilizzo i loro nomi nei film come se fossero vivi. E’ un dovere non dimenticare le persone importanti».

Non è più tempo di illusioni

In merito alla manifestazione pro Palestina durante la Mostra del Cinema di Venezia, la posizione espressa è stata chiara e, in un certo senso, disillusa. «Sono ovviamente contrario alla guerra, stiamo vivendo un orrore, ma sono disincantato. Davvero pensiamo che una marcia a Venezia possa cambiare le cose? Potevano essere illusi negli anni ’50, 60, ’70, ma oggi tutto è cambiato. Sono sempre stato un cane sciolto, per partecipare a manifestazioni collettive bisogna essere persone con una visione delle cose più omologata. Abbiamo la responsabilità di avere distrutto il mondo, soprattutto l’Africa, e adesso altri Paesi. E chi è al potere non ragiona». 

(Fonte: Il Resto del Carlino)

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