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Miracolo a Le Havre

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MIRACOLO A LE HAVRE

nazione: Francia Finlandia

anno: 2011

genere: drammatico

durata: 103 minuti

regia: Aki Kaurismaki

sito ufficiale: janusfilm.com/lehavre

cast: Jean Pierre Lèaud, Kati Outienen, Jean Pierre Darroussin, Andrè Wilm

produzione: Pandora Filmproduktion

 

RECENSIONE:

A Le Havre un anziano lustrascarpe: Marcel Marx. Un ragazzino arrivato dal Gabon clandestinamente in un container: Idrissa. Una moglie che si scoprirà gravemente ammalata: Arletty.     Un povero quartiuere proletario dove lavorano una panettiera, un fruttivendolo, una barista. Marcel vuole aiutare il ragazzo braccato dalla polizia di frontiera nonostante mancanza di soldi e con gravi preoccupazioni familiari. Poi c’è un comissario di polizia, all’apparenza cinico, ma disincantato, pronto ad ascoltare le ragioni del cuore.

Il regista finlandese Aki Kaurismaki fa un piccolo miracolo in Francia, mette su una fiaba moderna, dal malinconico sapore retrò che non guasta e insaporisce e colora lo squallore e l’indifferenza del mondo d’oggi.

Kaurismaki non rinuncia ai suoi soliti temi: il mondo del proletariato; il protagonista Marcel lucida le scarpe, è senza soldi, pieno di debiti, gli piace la bottiglia e rimpiange il tempo in cui fu bohemien a Parigi.

La fotografia (di Timo Salminen) è da mozzafiato, piena di colore e di gusto surreale mette in evidenza un’ironia che nasconde malinconia e desolazione, una stanchezza di vivere che apre però una prospettiva ottimistta in cui Kaurismaki offre la sua denuncia alla possibilità di vita, di fare del bene e di speranza.

In un mondo in cui prevale l’indifferenza e i messaggi quotidiani  sono d’allarme, sapere che qualcuno pensa, senza facile romanticismo e senza lacrime, che si possa cambiare il destino, questo è già molto.

Da una parte c’è lo spunto tratto dalla cronaca: i flussi degli immigrati in Europa, il modo di (non) accoglierli, dall’altra, ecco il solito Kaurismaki, quello che mette nella storia la sua malinconia, disperata ma non drammatica, anzi addirittura volto a un lieto fine non banale.

Principalmente legato alla cultura del Nord Europa, fatta di pudori e solitudini, il regista gira in esterni ma il film si muove in ambienti piccoli, isolati. Non ama la modernità e i personaggi vivono in luoghi pieni di oggetti di altre epoche, illuminati da colori netti, pastellati.

Kaurismaki, ancora una volta si conferma poeta disilluso ma pieno di speranze per quell’umanità priva di sostanze materiali ma ricca d’affetto che non chiede ricompense.

La frase cult: “ho fatto solo il mio dovere. Amo la società”

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