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Le Storie di Almanacco: Marco Negri – 27 apr

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Se qualcuno mi domandasse cos’è il calcio, la risposta sarebbe piuttosto semplice. O complessa nello stesso tempo.

Per me il calcio è una grande metafora della vita e soprattutto, come la vita stessa, non è mai un fiume tranquillo o nemmeno un film.

A volte vince chi non merita affatto e spesso sono pochi episodi a decidere un risultato o addirittura un avvenire. In tanti dietro a recriminare e a cercare di fare i conti contro il destino, sognando di riavvolgere il nastro per riportare tutto all’inizio. Per ricominciare tutto daccapo. Nella speranza di non commettere gli stessi sbagli e che la ruota giri finalmente dalla parte giusta. O che tutto proceda, così com’è.

Difficile. Molto difficile.

Ma si sa, tutto avviene in presa diretta, incontri ravvicinati con la cattiva sorte ed errori compresi.

E ci si può trovare dalle stelle alle stalle o viceversa in un attimo, senza vie di fuga o possibilità di recupero.

Se solo si potesse ritornare indietro nel tempo e tentare di riaggiustare il passato, come in una sorta di versione rivisitata di Ritorno al Futuro, non sarei qui a raccontare questa storia, o almeno, ne racconterei una ben diversa.

Se Marco Negri, il prolifico centravanti capelluto dei Rangers di Glasgow, in un piovoso mercoledì di un gennaio ormai avviato a passi lunghi e ben distesi verso la fine del millennio, invece di giocare a squash con un compagno di squadra durante il giorno libero dagli allenamenti avesse deciso di effettuare una corsetta nel parco vicino a casa, al massimo si sarebbe buscato un gran raffreddore, o nel peggiore dei casi, una fastidiosa laringite, anziché una pallina in un occhio a velocità supersonica. Come prezzo da pagare, un brusco stop alla carriera e alla rincorsa per aggiudicarsi la Scarpa d’Oro, in rampa di lancio verso una possibile convocazione in Nazionale in vista dei Mondiali di Francia ormai alle porte, senza trascurare il rischio di danni permanenti alla retina dell’occhio colpito.

Se solo si potesse modificare quella innocente decisione, proprio solo quella, davvero, il posto di vice Vieri probabilmente non glielo avrebbe tolto nessuno. E magari ripetere la favola delle Notti Magiche di Schillaci, da riserva Cenerentola a goleador azzurro, non sarebbe stato solo un sogno, chissà.

Invece proprio quell’incidente fortuito in quel maledetto pomeriggio oltre Manica ha minato gravemente la definitiva consacrazione dell’attaccante nativo di Milano ma friulano d’adozione, fino al qual momento public enemy number oneper le difese avversarie scozzesi. Dopo la sosta forzata, non è stato più lo stesso, complici altri infortuni e problematiche fisiche di ogni tipo, arricchite da un carattere poco docile ma mai sopra le righe.

Attaccante completo, fisicamente solido e abile con entrambi i piedi, forte di testa e in acrobazia, veloce nel pensiero e capace di giocare d’astuzia e d’anticipo contro il marcatore diretto. Tutte qualità che ne hanno fatto senza dubbio un giocatore di spessore europeo.  

Alcune stagioni prima di attraversare le bianche scogliere di Dover, strano ma vero Negri ha transitato da questi parti (a dir la verità anche alcuni anni più tardi, ma trattasi di una fugace apparizione a prova di almanacco, quando la sua carriera era ormai avviata ad una prematura parabola discendente) da giovane bomber apprendista, per risollevare le sorti di un attacco stitico di un Bologna reduce dal fallimento e relegato ad annaspare clamorosamente persino in terza serie. Correva l’anno 1993. “Ero in serie B a Cosenza e nelle ultime ore della finestra autunnale del mercato era stata intavolata una trattativa che prevedeva l’arrivo sotto le Due Torri di Marulla. C’era già l’accordo tra le due società ma il dispiacere di lasciare la città calabrese e una squadra di cui era ormai una bandiera ha prevalso in Gigi. Pertanto, alla fine a partire sono io, ventitreenne attaccante desideroso di fare esperienza e di ritagliarmi spazi importanti. Arrivo a Bologna in un momento tutt’altro che felice. La squadra ha mille difficoltà ed il mio esordio giunge proprio nella famigerata trasferta di Leffe, forse il punto più basso toccato dalla ultracentenaria formazione rossoblu, che galleggia in modo indecoroso a metà classifica in C. Non può esistere una situazione così critica per una piazza gloriosa e dalla tifoseria straordinaria come questa. In quel campo vicino ad un ruscello prendiamo una sonora batosta tipo David contro Golia e ricordo ancora le facce terrorizzate e ammutolite del mister Zaccheroni e dei miei compagni durante l’assedio dei tifosi giustamente incazzati come pantere affamate a fine gara al nostro spogliatoio. Zac aveva ormai le ore contate. Toccava a lui pagare per tutti, come purtroppo succede nel calcio, per una gestione societaria probabilmente inesperta e per scelte tecniche non troppo oculate nel breve periodo. Oltre a me, nel mercato di riparazione giungono due giocatori navigati come De Marchi e Sacchetti, due lussi per la categoria. Come lo stesso Zago, mai ripresosi completamente dopo il drammatico scontro contro Victor della Samp ai tempi non troppo lontani in cui era una grande promessa del Toro. Il gruppo non è male, c’è un connubio tra esperienza – ricordo Cervellati, Cecconi, Pergolizzi ed Ermini – e forze giovani, tra cui oltre al sottoscritto, il trio pugliese Traversa-Anaclerio-Campione e Tarozzi, ma forse non assemblato al meglio. Mancava probabilmente la chimica giusta”.    

Via dunque Zaccheroni, tocca a Edy Reja raccogliere il timone della squadra. Per risalire la china, per riagganciare il gruppo di testa (ChievoVerona e Spal sono le lepri più agili), per riacciuffare la speranza dell’obiettivo minimo stagionale che sono i play off.

Marco non fatica a spodestare l’improponibile Luca Pazzaglia al centro dell’attacco rossoblu, soprattutto a suon di gol e prestazioni convincenti fin da subito. Una rete di testa al Fiorenzuola in casa, gol vittoria a Mantova, altra realizzazione al Dall’Ara contro la Pistoiese in prossimità di Natale. Nel giro di un mesetto, fa capire a tutti di essere un attaccante sprecato per la categoria e insieme ai suoi compagni (nel frattempo, al gruppo si è aggregato anche il jolly offensivo Ivano Bonetti, cavallo di ritorno dopo lo scudetto da protagonista con la Samp di Boskov, Vialli e Mancini) si impegna al massimo nella difficile ma non proibitiva operazione recupero.  

Marco Negri di testa, Pergolizzi che scatta e Cecconi che insacca e la curva fa festa” è il coro più gettonato in Andrea Costa dell’inverno 1993-94, quello che sancisce la discesa in campo del Cavaliere di Arcore e la conseguente spinta verso il bipolarismo imperfetto nel panorama politico italiano.

Con i nuovi innesti finalmente a regime, la difesa più solida, la manovra fluida e realizzazioni a raffica, la squadra di Reja mette in fila un’impressionante serie di vittorie consecutive (ben otto) che la proiettano di colpo in testa alla classifica, sorpassando la capolista Spal proprio al Dall’Ara davanti a trentamila spettatori, un vero e proprio record di presenza per la C. Grande protagonista del match è proprio Negri, autore dell’assist della rete iniziale di Pergolizzi per poi chiudere i conti di testa in tuffo nella ripresa. E’ il momento clou della stagione ma, come in una ruota panoramica quando si giunge nel punto più alto, inizia una inaspettata discesa. Come se i rossoblu soffrissero le vertigini senza avere il coraggio di ammetterlo. La sconfitta al Bentegodi contro il Chievo apre la scia ad una serie di risultati che relegano gli uomini di Reja al quarto posto solitario finale. Ok, play off centrati ma quanto rammarico per la flessione marzolina. In B direttamente e con grande sorpresa ci vanno i carneadi del Chievo dell’emergente Malesani e dal doppio scontro con i cugini ferraresi i rossoblu se ne escono con le ossa rotte, con la complicità di arbitraggi non proprio all’altezza sia nella gara di andata a Bologna che in quella di ritorno nella città estense. Stagione fallimentare, dunque, occorre fare piazza pulita e ripartire di nuovo tra le fiamme dell’inferno.

Non è vero che è stato un fallimento in piena regola. Almeno dal mio punto di vista. Noi ce l’abbiamo messa tutta e il dispendio di energie psico-fisiche per scalare la classificare e recuperare posizioni è stato davvero notevole. L’amarezza più grande è stata quella di non potere regalare ai tifosi le soddisfazioni che si meritavano. Sempre presenti, numerosi, ovunque. Per me è stata una stagione importante. Ho segnato alla fine otto reti, forse non tante ma alcune di pregevole fattura tipo quella in rovesciata nella trasferta di Pistoia. A Bologna ho preso finalmente atto delle mie potenzialità. E soprattutto, qui mi sono trovato benissimo fin da subito. Non è un caso se ho scelto di stabilirmi in modo definitivo con la mia famiglia nel mio dopo calcio. Ti dico la verità. Io sarei rimasto anche in C senza problemi. Il mio contratto prevedeva infatti una clausola con un possibile diritto di riscatto a favore dei felsinei. Non fu esercitato poiché il nuovo tecnico Ulivieri, ingaggiato per il campionato successivo, aveva dichiarato fin dalla sua prima intervista che preferiva allenare chi la sera andava a letto presto o non usciva affatto. Ma io non ero mica il tipo che se ne stava in casa a guardare il Maurizio Costanzo Show. Non mi vergogno di certo a dirlo.

Già, quella fama di viveur e tombeur de femme cucita addosso. Marchiato come Caino. D’altro canto, un bel ragazzo come lui non poteva non solleticare sguardi e appetiti femminili. “Diciamo che mi piaceva e mi piace gustarmi la vita e tutto quello che essa può offrire. Al mio arrivo a Bologna, capitan De Marchi mi ha preso subito sotto la sua ala protettrice… poi non ti dico quante scorribande insieme. Ma la nostra serietà e professionalità veniva prima di tutto, credo di averlo dimostrato in campo. Per me tutto ciò che contava quando giocavo a calcio era quello che facevo dentro il rettangolo verde, nel bene e nel male. Non necessitavo dunque della mediazione dei giornalisti, avevo deciso di non rilasciare alcun tipo di intervista sin dai miei primi esordi, anche correndo il rischio di non attrarre particolari simpatie o di non prendere qualche voto in più in pagella dagli addetti ai lavori. Già io ero un severo giudice verso me stesso e nei confronti delle mie prestazioni, per cui solo chi mi veniva a veder giocare dal vivo poteva fare altrettanto ”.  

A Bologna Marco è si fatto la nomea di quello che non salutava l’allora Presidente Gazzoni. “Sì, ho combinato anche questa. Prima di una partita importante in casa, il numero uno della società era sceso negli spogliatoi per un breve saluto a noi giocatori. Si rivolgeva serenamente ad uno ad uno. Forse per non turbare la mia concentrazione, quando venne il mio turno, non lo calcolai proprio… E dire che era colui che in un giorno prestabilito del mese mi faceva trovare puntuale un robusto bonifico sul mio conto corrente. Avevo quella testa lì. Non a caso, infatti, in Scozia mi hanno soprannominato Moody, lunatico”.

L’arrivederci alle Due Torri e il ritorno in Calabria è subito sconvolto da una terribile notizia. Giuseppe Campione, il giovane promettente attaccante barese già compagno di reparto di Marco e ora ceduto in prestito alla Spal, muore in un tragico incidente stradale nelle campagne ferraresi. A soli ventuno anni. “Quando appresi l’accaduto, caddi nella più totale disperazione. “Champ” l’avevo sentito al telefono appena un paio di giorni prima, entusiasta della nuova sistemazione e voglioso di lasciare il segno a Ferrara. Invece il destino l’ha strappato ad un futuro radioso. Aveva grandi qualità tecniche, senso del gol e generosità. Mai una parola fuori posto. Davvero un ragazzo eccezionale, sensibile ed educato e non è la solita frase di circostanza creata per l’occasione. Con lui avevo stabilito un ottimo rapporto, anche fuori dal campo. Non ti dico quanti scherzi fatti insieme agli altri compagni. Durante i ritiri pre-gara, la serata terminava spesso in camera a parlare, scambiandoci anche confidenze piuttosto intime. La sua perdita mi ha lasciato un grande vuoto dentro. Per tentare di colmarlo, decisi allora dalla domenica successiva di indossare sopra la mano sinistra un polsino bianco in sua memoria, per portare l’amico Champ sempre con me in ogni gara che avrei affrontato.”

A Cosenza Negri ritrova Zaccheroni (guarda te i casi della vita), assume definitivamente le stimmate di bomber e la sua carriera decolla dunque in modo verticale, come un elicottero in partenza. In doppia cifra per tre stagioni consecutive, prima con i lupi calabresi e poi nella nuova destinazione Perugia, città della sua definitiva consacrazione calcistica, che gli apre le porte per Albione e l’umbratile avventura scozzese.  

Tutta il suo percorso sportivo Marco lo racconterà alcuni anni più tardi nella sua intensa autobiografia. “MARCO NEGRI, PIU’ DI UN NUMERO SULLA MAGLIA”. Pur essendo un esordiente, fin dalle prime pagine del libro, dimostra grande proprietà di linguaggio, dimestichezza narrativa e facilità espositiva, raccontando tanti episodi inediti del suo viaggio sin da ragazzino fino ai giorni nostri, felice papà a tempo pieno e ogni tanto chiamato ad insegnare calcio ai ragazzini in qualche camp in giro per il mondo. Le sue dichiarazioni non avevano mai trovato cittadinanza in nessun taccuino, lui che non lasciava trasparire nulla, nemmeno un’emozione anche nei momenti più felici. Un grande esame di coscienza nel ricordo del padre – figura fondamentale nella sua crescita – che purtroppo ora non c’è più e che sa anche di personale confessione. Per certi versi anche amara e dolorosa, per uno che nel giro di pochi anni è passato dall’essere l’idolo incontrastato di Ibrox Park ad allenarsi in perfetta solitudine in un parco semideserto come un dilettante qualsiasi. Non ci sapeva fare solo con la palla fra i piedi, il bomber dalla luna storta. L’esempio vivente che quando rimorso, rimpianto e destino si incontrano anche solo per ironia della sorte, si fondono in un abbraccio per poi non lasciarsi più.

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