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Virtus: mi ritorni in mente

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È diffusa consuetudine, quando si evocano storie sportive, rivangare successi strepitosi, vittorie mozzafiato, Per una volta, invece, io vorrei recuperare le emozioni di una sconfitta, la sua drammaticità rivelatasi apparente per come viceversa si sia poi trasformata nel fondo una volta toccato il quale non poteva che iniziare la risalita. E che risalita! Da lì infatti è nata la seconda vita della Virtus Pallacanestro, quella dei nove scudetti in venticinque anni, culminati nel grande slam del 2001. Parlo, dunque, del campionato 1970-71, quello degli spareggi per non retrocedere, interessante anche perché alcuni suoi risvolti potrebbero far riflettere su situazioni del giorno d’oggi.

L’annata era cominciata così così. La Virtus aveva trovato una sponsorizzazione, Norda, dopo che l’anno prima ne era rimasta senza, il che aveva aggravato le condizioni del bilancio bianconero. C’erano state di conseguenza le criticatissime cessioni di Cosmelli e Dado Lombardi, passato addirittura in Fortitudo, per sanarne i buchi. L’avvocato Porelli, l’allora presidente, che sarebbe poi assurto ad una sorta di beatificazione, veniva guardato di traverso, attaccato sovente dai media (verso cui partivano spesso querele, come al direttore di Stadio, Parisini) e contestato da una frangia di tifosi. La sua colpa era, per alcuni, avere trasformato la società in una S.p.a. (in pratica anticipando il corso dei tempi) più attenta ai risultati finanziari che a quelli sportivi. In più, erano alcuni anni che alla Virtus si sbagliava lo straniero, una sorta di condanna a morte nel basket di allora, fatto di tutti italiani e il fenomeno USA di turno. Due anni prima c’era stato Skalecky, onesto rimbalzista quasi nullo in attacco, poi era stata la volta di Driscoll, un fenomeno, come avrebbe dimostrato anni dopo, bloccato però da un infortunio mal curato che ne aveva penalizzato la resa prima del ritorno in NBA; ora, era il turno di Doug Cook, bello come un dio greco ma utile come un soprammobile: limitato, a dire il vero, anche lui da un problema di salute ammantato di mistero, viene ancora oggi citato come il peggior straniero visto a Bologna. Ingiustamente, a mio parere, primo perché condizionato appunto dal suo stato fisico (tanto che poi smise pressoché subito di giocare) poi perché nelle finali spareggio seppe dire la sua, rivelandosi prezioso per la salvezza. Comunque, alla fine del girone di andata la Norda aveva quattro vittorie su dieci, un percorso mediocre che era però su misura della linea di galleggiamento preventivata ad inizio stagione. Il girone di ritorno si era invece rivelato un incubo: solo sconfitte, alcune macroscopiche, come il 101-56 subito a Pesaro (una città che nella storia virtussina torna spesso come emblema di una crisi) non certo dai primi della classe, fino all’inattesa vittoria di Udine alla penultima giornata, risultato (69-84) commentato a lungo malignamente. Questi due punti permettevano alla Norda di affrontare l’ultimo turno con qualche velleità, più ancora che qualche speranza, perché al Palasport (non ancora Pala Dozza) di Piazza Azzarita arrivava la Forst Cantù, terza forza ormai fissa, dietro Ignis e Simmenthal, del campionato. Raggiunte così a quota 10 Biella e Livorno (che a 10 era arrivata una settimana prima battendo l’Eldorado: uno sgarbo dei cugini fortitudini?), una vittoria avrebbe rappresentato quasi certa salvezza, perché Livorno giocava sì, in casa con la Splugen Venezia, ma in campo neutro dopo un’invasione di campo proprio contro i canturini. Biella, invece, è vero, giocava in casa ma perché avrebbe dovuto vincere, dopo un anno di continue sconfitte? Questi, almeno, erano i pensieri- i vaneggiamenti – di un cinno che andava al Palazzo (come si era soliti dire a Bologna) con la sicumera del neofita. Dodicenne, era il primo anno che riuscivo con una certa frequenza a vedere la Virtus; prima i miei genitori avevano qualche perplessità, evidentemente, a lasciarmici andare, visto che non era previsto che ci accompagnassero e io ero il più anziano di un gruppetto di bambini. Succedeva anche questo, in quegli anni, che sulle tribune del Palazzo ci fossero frotte di bambini non accompagnati ad assistere in tutta tranquillità (per modo di dire…) alle partite di serie A. Al riscaldamento i brianzoli sembravano carichi, nonostante fossero già matematicamente terzi, lontani dalla vetta dove Ignis e Simmenthal si preparavano allo spareggio scudetto e irraggiungibili dalla quarta; quindi, perché avrebbero dovuto infierire? Invece, la partita fu un batti e ribatti, un punto a punto carico di adrenalina: Bertolotti, Serafini, Albonico, addirittura Cook ci davano l’anima, assieme a capitan Buzzavo più simile a un boscaiolo che ad un giocatore di basket ma efficacissimo in difesa contro titani come Lienhard e De Simone. C’erano tuttavia due giocatori che sembravano imprendibili: Recalcati era come un direttore d’orchestra che appena poteva pungeva con un tiro mortifero, il giovane Marzorati volava in contropiede con la rapidità di un missile. Alla fine fu 68-70, sconfitta sul filo di lana, il sogno che si crepa, il terrore che affiora: se una delle altre avesse vinto? Sinceramente non ricordo che ci fossero informazioni radiofoniche, all’epoca, il basket non era mica il calcio, e poi c’erano giusto radio uno e radio due, più il terzo programma che si occupava d’altro.  O forse sì, ma di sicuro non in tempo reale. Non c’erano neppure i telefonini, e così ci si doveva affidare alle telefonate “ufficiali” della società ai suoi emissari in trasferta. Il panico che serpeggiava non permetteva di abbandonare il Palazzo, mentre gli occhi di tanti si riempivano di lacrime contagiando i ragazzini che, più sprovveduti, forse non realizzavano cosa potesse significare tutto quello che stava accadendo. Alla fine si diffusero le voci: Biella e Livorno avevano perso, sarebbero stati spareggi la settimana successiva. Rimaneva quel filo di speranza che nei più giovani trasformava l’incubo in convinzione di farcela.

Dopo è storia, ed è tutta in discesa almeno per venticinque anni, seppur con piccoli alti e bassi. Agli spareggi di Cantù (destino beffardo in particolare per Livorno), che dovevano essere a Milano ma il PalaLido era occupato da una manifestazione politica, la Norda battè quasi con nonchalance Biella (dove giocava un giovane botolo riccioluto di nome Carlo Caglieris e che poi batté la Libertas) per poi perdere con Livorno, salvandosi grazie alla differenza punti.

Pare ci fossero duemila bolognesi, a Cantù, la Virtus non ne voleva sapere di finire nel baratro. Un attimo prima riuscì ad evitarlo, dando il via, in questo modo, al progetto-Porelli: prima ci fu l’arrivo di Fultz, poi quello di Dan Peterson, poi di Tom Mc Millen, il ritorno di Driscoll, l’arrivo di Caglieris, Villalta….in pochi anni il mito era rinato. Quella sconfitta con Cantù fece quasi da vaccino in casa bianconera, una paura che insegnò a non correre più certi rischi per una trentina di anni. Gli effetti di un vaccino, purtroppo, non è detto che siano eterni, e in questo caso è stato proprio così: una prima volta nel 2003, una seconda dodici anni dopo se ne è pagato dazio. La prima volta probabilmente non si è stati capaci di imparare dall’avventura di allora; oggi, al contrario, esiste la possibilità che il messaggio esemplare lasciato dalla storia venga raccolto un po’ da tutti, sia la società che i tifosi. Idee chiare, molto lavoro, tanta determinazione, poco fretta. Allora lo scudetto arrivò dopo quattro anni di piazzamenti, quando peraltro ben pochi se lo aspettavano, ad inizio stagione. Non subito, nemmeno il secondo e il terzo posto in campionato, giusto una Coppa Italia nel 1974. Poi, invece, un successo dietro l’altro, con qualche pausa tonificante, ma è anche bello che sia così, come sosteneva Gianluigi Porelli, perché il campionato mantenga la propria bellezza.

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