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Sfumature di Siniša Mihajlović
Quando si parla di Siniša Mihajlović ci si emoziona sempre. Provate a farlo anche questa volta, immedesimandovi in un ritratto puro e romantico di uno dei personaggi più genuini del calcio.
Il 1969 è stato un anno colmo di eventi. Il primo sbarco dell’uomo sulla luna, ad esempio, oppure il primo collegamento remoto tra due computer. Ci furono i Beatles, pronti a lasciare il proprio testamento con “Abbey Road”, mentre a Bethel andava in scena il Festival di Woodstock che avrebbe marchiato un’intera generazione.
Siniša Mihajlović è nato proprio in quell’anno così agitato a Vukovar, località che faceva parte dell’ex Jugoslavia e che oggi è di territorio croato.
L’infanzia di Siniša non fu scontata, affatto. Costretto a formarsi come uomo prima del previsto, ha dovuto bruscamente superare una fanciullezza che non gli apparteneva. Inconsueti i problemi, soprattutto con una nazionalità che dopo breve tempo sarebbe stata soffocata per sempre. Nazionalità, il termine chiave. Quando da giovane era costretto a sottoporsi alle visite mediche prima della leva militare, il modulo con i dati anagrafici richiedeva la nazione di origine. Lui, senza pensarci, scriveva Jugoslavia. Le guerre jugoslave furono al centro dell’adoloscenza di Mihajlović. Una data determinante fu il 4 maggio 1980: a Spalato, nel nuovo stadio dell’Hajduk, si disputava lo scontro al vertice tra Spalato e Stella Rossa. Il match dei match. Poli opposti, bianco contro nero. I pensieri di molti erano però rivolti all’ospedale di Lubiana, dove il dittatore Jugoslavo Josip Broz Tito era in condizioni di salute critiche. Quella partita venne ricordata soprattutto per il minuto 41′, quando tutto lo stadio seppe in diretta della morte del dittatore. La tribuna improvvisamente si svuotò. Alcuni giocatori si lasciarono andare in un pianto disperato. Da lì, il tracollo. Fino ad arrivare alla guerra.
Ed ecco che tra il bianco e il nero prevalse il rosso, il colore del sangue. Vukovar fu una delle città più devastate. L’adoloscenza scura di Siniša finì nel peggiore dei modi, tra cadaveri e macerie. La sua casa di famiglia non si riconosceva più. Bastò una bomba, per far crollare gioie e ricordi di una famiglia a modo. Paradossalmente, è stata proprio quest’infanzia saccheggiata che ha contribuito alla realizzazione di una personalità forte come quella del serbo. Una storia – la sua – che non aveva nulla a che fare con sparatorie e omicidi. Quella scritta da Siniša Mihajlović è una storia di calcio e di passione, di valori e tradizioni. Non amava giocare a pallone, preferiva la pallacanestro. Giocava a calcio solo perché voleva tirare in porta. Spesso litigava con il vicino che, a ogni gol, sentiva il frastuono del pallone che colpiva il garage, ma poco importava: il suo futuro era nel mondo del calcio.
Esordì con la maglia del Vojvodina ma, nonostante la vittoria del campionato, quel panorama gli stava stretto. Dopo un felice biennio trascorso a Novi Sad, arrivò la chiamata dei più forti. Quelli della Stella Rossa. Rimase due anni, utili a vincere la Coppa dei Campioni contro il Marsiglia. Siniša Mihajlović, nella cornice del San Nicola di Bari, si sentiva a casa. Per due motivi. Innanzitutto perché i colori della Stella Rossa, bianco e rosso, erano gli stessi della divisa dei pugliesi. San Nicola, invece, era il patrono della sua famiglia. Già, perché in Serbia ogni famiglia venera un patrono diverso. La squadra dei cigani (“zingari“) in quell’anno era di una superiorità immane. Oltre a al serbo, tornano in mente pedine di valore universale come lo erano Dejan Savićević , Robert Prosinečki, Darko Pančev e Dragiša Binić. Tanta stoffa, come dall’altra parte d’altronde. Chris Waddle, Abédi Pelé e Jean-Pierre Papin guidavano i francesi all’arrembaggio. Un arrembaggio solo sognato, che non si avverò. La squadra di Vladimir Petrović detestava avere il pallino del gioco, lasciò l’iniziativa ai francesi per l’intera partita. Ai rigori, la Stella Rossa vinse una delle più brutte finali della Champions League. Ma trionfò. E Siniša Mihajlović contribuì alla conquista del trofeo siglando il quarto rigore della sequenza. Non ne sbagliarono nemmeno uno, i serbi.
Il suo destino era però in Italia, lo ha sempre saputo. La prima tappa del viaggio fu Roma, sponda giallorossa, dove ad attenderlo c’era Vujadin Boškov. L’allenatore serbo ebbe un impatto fortissimo sul serbo che, pur non brillando nella sua prima esperienza italiana, imparò molto da uno dei suoi principali mentori. Ancora oggi il tecnico serbo si emoziona parlando di un uomo che ha sempre definito come il suo secondo padre. E come dargli torto. Una delle scene più utili a far capire il legame tra i due fu questa: Boškov decise di schierare Mihajlović da terzino, lui accettò senza fare discussioni. Più tardi affermò di non aver contestato la scelta solo perché glielo chiese quel mister. Con un altro allenatore avrebbe rifiutato.
Dopo la Roma arrivarono per lui una serie di esperienze più gratificanti, dove si affermò come uno dei migliori calciatori del torneo. Prima alla Sampdoria, dove in quattro anni apprese gli insegnamenti di un grande come lo era Sven-Goran Erikson. Le quattro stagioni all’ombra di Marassi furono gratificanti, era supportato da gente come Walter Zenga, Ruud Gullit, Clarence Seedorf e Roberto Mancini. Non le ultime ruote del carro. Non arrivarono trofei, ma giunse la consacrazione. Quella definitiva – però – sarebbe arrivata solo dopo il 1998, quando decise di tornare a Roma, questa volta per giocare con la maglia della Lazio. Le stagioni con i biancocelesti sono state le più intense, quelle più importanti. E i motivi sono tanti. L’anno più bello resterà quello della stagione 1999-2000, dove una corazzata imbattibile portò nella Capitale lo Scudetto, la Coppa Italia e la Supercoppa Uefa. Un team pazzesco, orchestrato da un maestro allenatore e composto da interpreti come Luca Marchegiani, ancora Mancini, Pavel Nedved, Diego Simeone, Dejan Stanković e Marcelo Salas. Ce ne sarebbero anche altri, ma la storia è nota a tutti. L’esperienza da calciatore si concluderà all’Inter: due Coppe Italia e il famigerato scudetto targato Calciopoli furono lo spartiacque definitivo tra il Siniša uomo e il Siniša calciatore. Appese gli scarpini al chiodo, ma ormai il calcio era dentro di sé.
Il Mihajlović allenatore è sempre stato un sergente. Non contava mai fino a dieci. La pazienza la perdeva prima, massimo quando arrivava a cinque o a sei. Per conferme chiedere a Mario Balotelli oppure ad Adem Ljalic che, prima di una gara con la Serbia, si rifiutò di cantare l’inno Nazionale scatenando la sua ira.
Dopo un breve apprendistato all’Inter come vice di Mancini, la prima vera esperienza fu al Bologna. Già, al Bologna. Dove un cerchio, un pò più in là, si sarebbe chiuso. Ovvio, il primo periodo di amore è sempre il più difficile. Per questo ci voleva una pausa salutare, prima di capire ciò che si desiderava davvero. E quindi prima Catania e poi Fiorentina. Un percorso di apparente maturazione che lo portò fino alla Nazionale serba. Ma non andò bene. Il primo tempo da Ct si concluse con la mancata qualificazione ai Mondiali in Brasile, con il fato che gli mise di fronte la Croazia, in uno spareggio che significava ben altro. Il secondo tempo della sua avventura non inizia nemmeno.
L’ennesimo aereo di Siniša Mihajlović atterrerà ancora in Italia. La chiamata della Samp era troppo forte e, siccome il tecnico serbo non ha mai amato i debiti, accettò senza pensarci. Due anni vissuti tra il calore di Marassi, ottimi risultati e una Champions sfiorata per lungo tratto. Nel 2015 decise di lasciare Genova, la sua gavetta sarebbe continuata prima al Milan e poi al Torino. Il finale di queste avventure è scritto, importante in questa storia è il ritorno lì, dove tutto era iniziato. Con il Bologna è stato amore puro, a prima vista. Nonostante tutto, sorpassando sfide ostiche. Complicate. Il Sergente ha tenuto duro nei momenti scuri, ha passato la sua mentalità nella testa dei suoi uomini. E i risultati lo stanno premiando tutt’oggi. Aldilà di tutto. Un passaggio netto, una maturazione umana prima che professionale. Perché Siniša Mihajlović è passato da soldato a sergente in poco tempo, accettando una sorte che troppo spesso gli è andata contro.
Abbiamo iniziato con Abbey Road dei Beatles, così concluderemo. Il primo brano di quell’album fu, seppur tra infinite polemiche, “Come Together”. Venne modificato però: la versione originale era dedicata a Timothy Leary, favorito per diventare il nuovo Governatore della California. Perse però, a discapito di Ronald Reagan. La canzone venne quindi modificata, John Lennon la riadattò e la fece diventare l’inizio del testamento dei Beatles.
“He roller-coaster he’s got early warning, He’s got muddy water he’s one mojo filter, He say One and one and one is three, Got to be good looking cause he’s so hard to see”.
“Lui è una montagna russa. Ha ricevuto il primo avvertimento. Ha acqua stagnante. Ha un filtro magico. Dice “uno e uno e uno è tre”. Devi apparire bene perché è così difficile da capire”.
La sfumatura è un passaggio graduale di tonalità, da un colore all’altro. Siniša è tutto questo, ha costruito un’identità forte e precisa all’interno di un contesto storico-culturale che, all’inizio della sua vita, non poteva riconoscere come suo. Da fanciullo – buono e ingenuo – ad adulto – coraggioso e testardo, obbligato a lasciare il nido troppo presto. Il passo è stato tortuoso ma efficace. Chi parla di lui non può riferirsi a un unico carattere, si trova costretto ad ampliare i propri orizzonti per comprendere una storia di vita – privata e professionale – colma di tonalità e sfumature.
Perché Siniša Mihajlović raffigura tutto questo: un insieme di sfumature pronte a esplodere in un dipinto ricco di emozioni.
Fonti:
– Rabona
– Treccani.it
– Wikipedia.org
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