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MONDAY NIGHT: Storia a puntate del calcio in Italia #04 – L’epopea delle “Bianche Casacche”: la Pro Vercelli

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Dopo l’epopea del Genoa, e mentre Juventus, Inter e Milan ancora studiavano da grandi squadre, in Italia venne il tempo di una piccola provinciale che avrebbe dominato la scena per molti anni: la Pro Vercelli.

1^ puntata: Genoa VS Rappresentanza Torino, 6 gennaio 1898

2^ puntata: Campionato Nazionale di Football 1898

3^ puntata: Tra diavoli e cittadini del mondo: a Milano è tempo di fólbal


Stadio “Leonida Robbiano”, 2 giugno 1935, Serie A (30^ giornata)

Pro Vercelli – Roma = 1-4

Per raccontare una storia, a volte, si può partire dalla fine. La Pro Vercelli che saluta la Serie A al termine della stagione 1934/1935, per non rivederla più, è una squadra che ha la maglia bianca, che si chiama Pro Vercelli, ma che della mitica squadra che per prima ha contribuito a cambiare la storia del calcio in Italia non ha più molto altro. La rete di Ernesto Tomasi e la tripletta del “Corsaro Nero” Guaita, appena l’anno precedente protagonista della vittoria al Mondiale con l’Italia, sono soltanto le ultime mazzate inferte a una squadra che da tempo ha purtroppo smarrito la sua grandezza, incapace di adeguarsi ai numerosi cambiamenti di cui il calcio è stato protagonista dopo essere invece stata capace di prevenirne i primi quasi trent’anni prima, diventando la squadra di riferimento del nostro movimento al punto da ispirare la maglia della Nazionale nelle sue prime uscite. Facciamo un doveroso salto indietro.

Sorta come Società Ginnastica nel lontano 1887, mentre il football veniva praticato soltanto sporadicamente a Torino da nobili e borghesi benestanti, la Pro Vercelli istituì la propria sezione calcistica nel 1903, guidata dall’avvocato penalista Luigi Bozino. Affascinato dal nuovo gioco giunto dall’Inghilterra e che si stava imponendo anche nel nostro Paese, Bozino puntò immediatamente su giovani ragazzi vercellesi, appassionati ed entusiasti e che avrebbero preso il calcio in tutt’altra maniera rispetto a come veniva praticato in Italia all’alba del XX secolo. Mentre infatti le grandi squadre metropolitane quali Juventus, Genoa, Milan e Inter praticavano un gioco elegante e raffinato, basato sui virtuosismi tecnici dei numerosi assi stranieri che ne componevano le fila, la Pro Vercelli arrivò come una completa rivoluzione nel calcio di alto livello, mostrando come grinta, compattezza e aggressività potessero avere la meglio sui pur importanti valori tecnici.

L’evento decisivo capace di proiettare le “Bianche Casacche” nel firmamento del calcio nazionale avviene nell’ottobre del 1907. Stufi di subire la classe dei campioni stranieri, alcuni club spingono la Federazione Italiana Football verso un importante cambiamento, motivando tale scelta con la necessità di entusiasmare i più giovani talenti italiani, in altro modo frustrati dalla mancanza di spazio e dall’enorme gap tecnico esistente non solo tra italiani e britannici (che del resto il football lo hanno inventato mezzo secolo prima) ma anche tra gli italiani e i confinanti svizzeri, ad esempio.

Presa la decisione di istituire due campionati distinti, quello “nazionale” riservato appunto a sole squadre composte da italiani e quello “federale” dove invece potevano essere schierati anche gli stranieri, la FIF non si rese immediatamente conto di come questo avrebbe cambiato per molti anni gli equilibri del calcio italiano. Il “campionato nazionale” del 1908 fu infatti vinto a sorpresa dalla Pro Vercelli, capace di imporsi prima nelle qualificazioni regionali piemontesi sulla più rinomata Juventus e poi di superare nel girone finale a tre US Milanese e Andrea Doria, modeste rappresentanti di Lombardia e Liguria e arrivate a giocarsi il titolo per la semplice ragione che nessun’altra squadra si era iscritta ad un campionato che veniva considerato una farsa e che invece, ancora oggi, viene considerato come un vero e proprio campionato nazionale – a differenza del “federale” vinto dalla Juventus contro compagini ben più rinomate.

Attenzione però: se quello del 1908 fu il “primo squillo” della Pro Vercelli, gli anni successivi, ricomposta la scissione tra italiani e stranieri, avrebbero dimostrato che le “Bianche Casacche” non erano certo state un exploit isolato. Anzi. Nelle sei partite giocate per conquistare lo Scudetto del 1908 si potrebbero già evincere le particolarità di una squadra che, prima in Italia, si muoveva come un uomo solo, compatta e aggressiva, incapace di utilizzare il fioretto ma molto abile con la sciabola. Le tre gare giocate in casa, a Vercelli, non videro mai la Pro imporsi: 1-1 con la Juventus, 0-0 con la Milanese, ancora 1-1 contro l’Andrea Doria. In trasferta, però, la musica cambiava totalmente: 0-2 a Torino, 0-1 a Milano, 1-2 a Genova.

Era insomma la Pro Vercelli una squadra capace di correre e di lottare più di chiunque altro in Italia, una squadra che sorprese gli eleganti footballers metropolitani, che si trovarono improvvisamente di fronte giovani vigorosi ed atletici, capaci di mollare dure spallate, di effettuare decisi contrasti e poi di rilanciare il pallone in avanti, con vigore, sorprendendo difensori compassati e abituati a tutt’altri ritmi. Fu in questo periodo che nacque l’espressione “il calcio non è uno sport per signorine”, coniata dal centromediano e capitano Guido Ara, in realtà calciatore di un certo livello ed eleganza ma che con questa massima – poi divenuta famosa in tutto il mondo – si rivolgeva appunto ai calciatori delle grandi città, abituati a giocare a calcio più come ad un’esibizione che come ad uno scontro agonistico. Nel 2-3-5 utilizzato all’epoca da tutte le squadre, si poteva scorgere in quello della Pro Vercelli una grande compattezza difensiva: i due terzini erano infatti protetti da una mediana, composta da Ara, Leone e Giuseppe Milano, decisa e poco portata a inutili orpelli.

Conquistata la sfera, questa veniva lanciata alle velocissime ali, a loro volta capaci di corse sfrenate che disorientavano i difensori avversari e che spesso lasciavano liberi di colpire gli interni. Tra questi merita di essere citato quello che può forse essere considerato il primo vero grande calciatore italiano, Carlo Rampini. Piccolo di statura, dotato di dribbling, corsa e soprattutto di un tiro micidiale, fu uno dei due interni titolari e il bomber principale dei vercellesi fin da quando questi si imposero nel 1908, restando in squadra fino al 1914 e segnando più di un goal a partita. Con la sua ala di riferimento, Carlo Corna, formò un binomio inarrestabile sul campo e molto legato anche al di fuori di esso. Per ogni rete realizzata, infatti, Rampini riceveva dal presidente Bozino un sigaro che prontamente rigirava all’amico, indigente e con un fratello malato, che a sua volta lo rivendeva.

Gesti di grande solidarietà e che ci fanno capire la dimensione di un calcio dove anche i più grandi campioni d’Italia dovevano fare i conti con il lavoro e le ambizioni che una cittadina come Vercelli non poteva certo offrire a tutti. Questo insieme di cose, inizialmente, favorì la grande coesione che venne a crearsi tra i membri della squadra stessi, tutti nativi del posto, e gli stessi cittadini vercellesi, orgogliosi dei propri ragazzi e sempre pronti a incitarli e sostenerli. La Pro Vercelli conquistò ancora molti titoli: fu Campione d’Italia, dopo il 1908, anche nel 1909, nel 1910/1911, 1911/1912, 1912/1913, mancando la vittoria nel torneo del 1910 – che avrebbe significato sei vittorie consecutive – soltanto per un vergognoso alterco con l’Internazionale all’atto finale, episodio che merita una narrazione separata e che leggerete prossimamente.

Dovunque andassero in quegli anni le “Bianche Casacche” mietevano vittime, incapaci di adeguarsi al calcio atletico praticato dai vercellesi e di ricreare, per ovvi motivi, lo stesso spirito di coesione della provincia. Fu l’avvento del denaro a sancire la fine, lenta ma inevitabile, della Pro Vercelli. In primo luogo nel 1914, quando il bomber Rampini fu costretto a lasciare il calcio ad appena 23 anni per occuparsi a tempo pieno dell’azienda di famiglia: oltre 100 reti in meno di 100 gare, il calcio perdeva così improvvisamente la sua più grande stella, punto fermo anche della Nazionale, mentre la Pro Vercelli, smarrita, cedeva al Casale, squadra nata nelle vicinanze di Vercelli con l’obbiettivo dichiarato di sconfiggere i grandi giocatori della “Pro”. Interrotto il calcio per via della Grande Guerra, quando si ritornò a giocare sembrò che le “Bianche Casacche” avessero smarrito il proprio smalto, ma tornarono prepotentemente in auge all’alba degli anni ’20, conquistando gli ultimi due campionati (1920/1921 e 1921/1922) grazie alle reti di Alessandro Rampini, fratello minore del grande Carlo e anche lui bomber di grande spessore, autore dei gol decisivi per superare Bologna e Genoa.

L’allenatore di questa seconda incarnazione della mitica Pro Vercelli era Guido Ara, il vecchio capitano dei primi successi, mentre la stella, con Alessandro Rampini ritiratosi dopo la vittoria del campionato, era l’elegante difensore Virginio Rosetta. Proprio all’indomani del settimo e ultimo Scudetto questi si rese protagonista di un tradimento clamoroso, lasciando Vercelli per Torino, e la Pro per la Juventus, contro il parere di quella che a tutti gli effetti era la società a cui apparteneva ma a cui non era legato, come tutti i calciatori in un’epoca di puro dilettantismo, da alcun contratto. Deciso, giustamente, a far fruttare le proprie doti di calciatore, Rosetta fu inizialmente squalificato dopo il ricorso dell’avvocato Bozino, ma quando – come già era accaduto in Inghilterra e come poi sarebbe accaduto nel resto del mondo – la FIGC si arrese a un fenomeno, quello del professionismo, impossibile da arrestare, ecco che questo fu l’inizio della fine per la grande Pro Vercelli.

Incapace di trattenere a se i migliori giocatori, decisa orgogliosamente a non cedere al professionismo e comunque impossibilitata a farlo – dato che la forza di questa società erano sempre state le idee, e mai i soldi – la Pro Vercelli incappò in un triste declino, che fu rimandato di anno in anno soltanto dal suo antico e splendido orgoglio. Dal 1923, anno dell’ultimo Scudetto, al 1935, ultimo campionato in A, quella che un tempo era la più forte squadra d’Italia vide l’emergere del grande Torino di Baloncieri, Rosseti e Libonatti, la Juventus capace di vincere cinque campionati con Rosetta leader della difesa, l’Italia capace di vincere il Mondiale, la stessa Italia che un tempo non troppo lontano aveva visto ben nove giocatori della Pro Vercelli vestirne la maglia contemporaneamente!

L’ultimo bagliore, l’ultima illusione, fu un ragazzo che segnava a raffica e che la storia ricorderà come uno dei più grandi centravanti che il nostro calcio abbia mai avuto: Silvio Piola, ultimo grande campione esploso a Vercelli e che giovanissimo, a suon di reti, fece ancora parlare di questa ormai decadente squadra riuscendo nel contempo a salvarla dalla retrocessione. Mai la Pro avrebbe rinunciato a Piola, lo disse lo stesso presidente Ressia ai cronisti che gli chiedevano quanto valesse il suo centravanti: “Mai lo cederemo, neanche per tutto l’oro del mondo. Perché il giorno che saremo costretti a cederlo, quel giorno segnerà il tramonto della Pro Vercelli.”

Ressia fu profetico: la Serie A 1933/1934 si concluse con la Juventus di Rosetta ancora campione ma con la Pro Vercelli capace di raggiungere un ottimo settimo posto, ma in estate accadde l’inevitabile, e per esigenze di bilancio il club fu costretto a rinunciare al suo grande centravanti, divenuto nel frattempo talmente grande da non poter sprecare il proprio talento in un club che aveva ancora tanto romantici quanto anacronistici sogni di un calcio “come una volta”, dilettantistico, spoglio dei soldi che, secondo chi non ne possedeva, ne avvelenavano l’anima.

Dopo Rampini e Rosetta, anche Piola lasciò Vercelli per denaro: non uno stipendio migliore, semplicemente uno stipendio, quello che una società come la Pro Vercelli non riusciva a riconoscere ai suoi più grandi campioni neanche lontanamente. Fu forse questo il grande limite che segnò la fine della squadra che aveva cambiato il calcio in Italia: essere diventata troppo grande, troppo forte, aver cresciuto troppi grandi campioni rispetto alle proprie possibilità. La prima stagione senza Silvio Piola coincide con l’addio alla Serie A: l’ultima gara giocata è quella del 2 giugno 1935, una sconfitta interna contro la Roma, un saluto al grande calcio che sarà un addio.

Dal 1948 al 2012, addirittura, quella che un tempo era la squadra più temuta d’Italia rischierà di scomparire più volte e non disputerà neanche la Serie B, dibattendosi tra la C e addirittura l’Interregionale, uno degli ultimissimi scalini del calcio nazionale. Da squadra dei racconti dei padri, quella di Ara, Rampini e Corna diventerà la squadra dei racconti dei nonni, e poi dei bisnonni, fino a sfumare tanto nella leggenda quanto nell’oblio. Chi ricorda ancora la grande Pro Vercelli? Chi ricorda le “Bianche Casacche” che davano lezioni di calcio e agonismo agli eleganti quanto snobistici calciatori metropolitani?

La Pro Vercelli andrà sempre ricordata. Perché trasformò, per prima, il calcio da un elegante passatempo a uno sport vero e proprio. Perché per prima praticò la lotta con il coltello tra i denti, predicando compattezza e grinta, valori che sono alla base del calcio italiano e che per primi sono stati incarnati da questa mitica squadra. E perché il suo declino coincise con la trasformazione del calcio da sport a business: un passaggio inevitabile, un passaggio a cui una squadra così verace e romantica non avrebbe mai potuto sopravvivere. Una squadra che comunque è riuscita a scrivere per sempre il suo nome nella storia: con i suoi 7 Scudetti, al pari di Bologna e Torino, la Pro Vercelli è la quinta squadra più vincente nella storia del calcio italiano, preceduta soltanto da Juventus, Inter, Milan e Genoa, l’unica espressione titolata di una città non capoluogo di regione nel nostro Paese. Una squadra leggendaria, dunque, che poche hanno saputo eguagliare per importanza e impatto nella storia del football nostrano.

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