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Calcio

I PROTAGONISTI DEL MONDIALE (13^ puntata): Messico 1986

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Messico 1986, il Mondiale di Diego Armando Maradona, per moltissimi tifosi e addetti ai lavori il più grande calciatore mai visto. Questo è il suo Mondiale, ma è anche quello delle tante stelle che affollano una Serie A mai così ricca e che vede l’emergere del calcio africano, fino ad allora semplice comparsa.

Le precedenti puntate:

– URUGUAY 1930
– ITALIA 1934
– FRANCIA 1938
– BRASILE 1950
– SVIZZERA 1954 
– SVEZIA 1958 
– CILE 1962

– INGHILTERRA 1966

– MESSICO 1970

– GERMANIA OVEST 1974
– ARGENTINA 1978
– SPAGNA 1982 


#IL MONDIALE
Il torneo dovrebbe svolgersi in Colombia, che però nel 1983 rinuncia per gravi problemi economici: tocca ancora al Messico, come già nel 1970. Partecipano 24 squadre, e spicca l’assenza dell’Olanda, che dopo gli exploit del “Calcio Totale” si è normalizzata finendo per mancare la rassegna irridata. L’Asia propone  una nuova protagonista, l’Irak, che perde tutte e tre le gare del girone ed esce subito ma senza particolari tonfi come in passato le squadre di quel raggruppamento ci avevano abituati. L’Africa porta due squadre, ma mentre la quotata Algeria esce subito il Marocco stupirà il mondo accedendo (prima africana nella storia) agli ottavi di finale.
Spiccano da subito la Germania Ovest allenata da Beckenbauer, un complesso solido e dalla grande fisicità che non a caso arriverà fino in fondo, la Francia del ‘calcio-champagne’ guidata da Platini e l’Inghilterra, che trova tra le sue fila il capocannoniere del torneo Gary Lineker. L’Italia campione in carica è invece alle prese con un evidentemente difficile ricambio generazionale: Bearzot paga la sua riconoscenza ai campioni dell’82 e non trova ricambi adeguati, gli azzurri balbettano nella fase a gironi ed escono quando il gioco si fa duro. Il Brasile non dispiace, ma manca di vera incisività: non basta Careca a rendere ottima una squadra buona, che comunque esce solo ai rigori senza essere mai stata sconfitta, come già successo nel 1978. 


Le possibili sorprese si sgretolano una dopo l’altra in pochissimo tempo: l’URSS paga arbitraggi discutibili ed una scarsa tenuta fisica, la Danimarca domina il girone eliminatorio ma poi si scioglie come neve al sole per il troppo sforzo prodotto, il Belgio arriva in semifinale giocando un calcio attendista e cinico ma non ha classe a sufficienza per andare oltre il 4° posto finale, miglior risultato di sempre comunque per i “Diavoli Rossi”. 


Il torneo vede affrontarsi in finale le due squadre indubbiamente migliori del torneo, e vede il trionfo dell’Argentina di Maradona, autentico ‘uomo che fa la differenza’ che trascina una compagine buona ma non eccelsa sul tetto del mondo grazie ai suoi gol fenomenali e ai suoi dribbling ubriacanti. E’ decisamente un Mondiale bello e spettacolare, impreziosito dalla presenza di un “Pibe de Oro” mai così al top e che sovverte la legge non scritta del calcio che dice che un uomo solo, per quanto fortissimo, non può cambiare gli equilibri: Maradona, primo e unico caso nella storia, farà proprio questo, dando il secondo successo al suo Paese.


#LE STELLE

L’Argentina campione schiera un accorto 4-3-1-2: in difesa spiccano il portiere Pumpido e i centrali Ruggeri e Brown, che prende il posto dell’infortunato Passarella. Il centrocampo ha corsa e grinta: Batista, Giusti e Burruchaga coprono le spalle a Diego Armando Maradona, stella indiscussa della squadra. L’attacco è composto da Enrique e dall’ottimo Valdano.
La Germania Ovest vanta invece una difesa fortissima grazie al portiere Schumacher e agli espertissimi Forster e Briegel. L’ordine a centrocampo è garantito dal fosforo dell’anziano Magath, per cui corrono i due ‘mastini’ Brehme e Matthaus. In attacco Rumenigge è affiancato dal potente Allofs, che però delude ed è spesso sostituito da Rudi Voller, che si rivelerà uno dei migliori attaccanti del torneo e sarà futuro protagonista in Italia con la Roma. 
La Francia che arriva ancora una volta ad un passo dalla finale non ha ne difesa ne attacco (pur se si intravede un acerbo Jean-Pierre Papin) come reparti particolarmente forti, ma vanta un centrocampo stellare con Fernàndez vertice basso, Tigana e Giresse ai lati e Michel Platini vertice alto con libertà di inserimento in avanti.
Il Belgio mette in mostra il miglior portiere al mondo ai tempi, Jean-Marie Pfaff, e un centrocampo di talento dove tra i vari Ceulemans e Vandereycken spicca il giovane (di origini italiane) Enzo Scifo. Delude l’Italia, che può contare sui campioni del 1982 Tardelli, Cabrini, Rossi, Scirea e Altobelli ma che non riesce a trovare i giusti ricambi per le stelle ritiratesi nel frattempo.
Altre stelle sparse: nella Corea del Sud brilla Cha Bum-Kun, primo coreano a giocare in Europa e bomber discreto. I padroni di casa del Messico vantano una coppia d’attacco buonissima composta da Hugo Sanchez e Manuel Negrete e in porta uno dei tanti pittoreschi portieri che “El Tri” ha avuto, Pablo Larios. Nell’Ungheria predica nel deserto il fortissimo Lajos Detari, splendida promessa mai mantenuta e ultimo grandissimo del calcio magiaro, così come nell’Algeria avviene lo stesso con Rabah Madjer, mentre nell’URSS che gioca “il calcio del 2000” spiccano le individualità di Zavarov, Protasov e Belanov oltre alle qualità del portiere Dasaev.


Il Brasile non è tra i più forti che si ricordi ma vanta comunque individualità come Zico, appena giunto in Italia all’Udinese, Socrates, Junior. In attacco spunta la stella di Careca, mentre Casagrande e Muller saranno poi protagonisti in Italia con la maglia del Torino. In fase calante Cerezo e Falcao, che finiscono in panchina. Un altra squadra piena di talento è, finalmente, la Spagna: l’ultima generazione ha dato alle “Furie Rosse” dei veri fenomeni quali la “Quinta del Buitre”. Sanchis, Michel, Pardeza e Martin Vasquez si affiancano al più splendente dei cinque, il leader, Emilio Butragueno, centravanti che grazie alla sua velocità può colpire con dei magistrali contropiedi. Completano la squadra due baschi, il portiere Zubizarreta e la punta Salinas, la squadra è forte ma deve arrendersi ai quarti di finale: i rigori sono fatali contro la rivelazione-Belgio. 


Nell’Inghilterra troviamo il capocannoniere del Mondiale, Gary Lineker, e oltre a lui anche campioni come Shilton, Robson, Waddle, Barnes e Beardsley. Nell’Uruguay brilla solitaria la stella di Enzo Francescoli, mentre la Danimarca che domina la prima fase mette in mostra i “vecchi” Allan Simonsen (Pallone d’Oro 1977) e Preben Elkjaer Larsen (eroe dello Scudetto del Verona) affiancati dal talentuoso juventino Michael Laudrup.


L’EPISODIO
Mai prima del 1986 il calcio africano era stato preso sul serio: nel 1974 la sciagurata spedizione dello Zaire era tornata a casa con 0 punti; nel 1978 la Tunisia era riuscita nell’impresa di sconfiggere il Messico e pareggiare con la Germania Ovest futura campione, ma la sconfitta con la Polonia per 1 a 0 gli aveva impedito di accedere al turno successivo. Nel 1982 il Camerun era uscito al primo turno, ma senza mai perdere una gara sulle tre disputate, concluse in altrettanti pareggi, mentre l’Algeria era stata eliminata solamente grazie ad un tacito e vergognoso accordo tra Germania Ovest e Austria, che avevano finito per estrometterla per la differenza reti. Tuttavia il calcio africano era in una lenta ma costante crescita, e la riprova si sarebbe avuta nelle edizioni successive del 1986 e del 1990. 


In Messico il protagonista fu il Marocco, prima africana di sempre a superare il primo turno: inseriti in un girone di ferro con Portogallo, Inghilterra e Polonia, gli uomini guidati dal brasiliano Josè Faria impattarono 0 a 0 all’esordio con la Polonia, e 4 giorni dopo furono capaci di fermare anche l’Inghilterra in una partita combattuta e giocata a 100 all’ora dai marocchini. Nell’ultima partita del girone gli africani si trovarono di fronte il Portogallo, che all’esordio aveva sconfitto l’Inghilterra e che poi aveva perso con la Polonia: nessuno poteva pensare che la gara sarebbe andata come poi effettivamente andò, con il Marocco che alla mezzora conduceva già per 2 a 0 grazie ad una doppietta di Abderrazak Khairi. Finì 3 a 1, con i portoghesi buoni a trovare il gol della bandiera solamente a due minuti dal termine. 
Il Marocco passava così il girone, e lo faceva addirittura da primo della classe. La vittoria con il Portogallo era significativa, visto che si trattava della Nazionale che più aveva costruito le sue fortune sul “furto” di campioni africani come il grande Eusebio, originario del Mozambico.


Nel Paese fu festa grande, c’è chi sognò addirittura la conquista della Coppa, ma tutto tornò alla normalità negli ottavi di finale, quando il sogno marocchino fu interrotto da una bordata su punizione, a due minuti dalla fine, di Lothar Matthaus. La Germania Ovest eliminava il Marocco e volava verso la finale, agli uomini di Faria rimaneva il rimpianto di aver giocato alla pari anche con i futuri vice-campioni. Nessun giocatore di quella squadra ebbe poi una carriera significativa in Europa, compreso lo stesso CT.
L’impresa di quel Marocco ai Mondiali del 1986 fu tuttavia cruciale: in quei giorni, il calcio africano smise di essere considerato ‘inferiore’ e cominciò la sua graduale ma inesorabile crescita, che sarebbe poi stata confermata nel torneo successivo dal brillante Camerun di Roger Milla.

#IL PROTAGONISTA
Se chiedete chi è stato il miglior calciatore della storia a un brasiliano, questo vi risponderà Pelé. Se lo chiedete a chiunque altro, è probabile che vi farà solo un nome: Diego Armando Maradona.
Nato in una delle tante baraccopoli dell’Argentina di allora e di oggi, cresce giocando a calcio ogni giorno nelle strade polverose di Lanùs. Lo nota l’Argentinos Juniors di Buenos Aires, che ha appena preso il suo più acerrimo rivale e migliore amico Goyo. Il provino è rocambolesco, ma subito agli occhi del suo scopritore Francisco Cornejo la cosa è evidente: il talento di quel ragazzino è infinito, potrebbe diventare il migliore di sempre.
Nelle giovanili spopola, esordisce in prima squadra a 16 anni ma è già famoso per i numeri di palleggio con cui intrattiene il pubblico allo stadio durante l’intervallo. A 17 anni è titolare, a 18 capocannoniere del campionato, a 19 e 20 anni vince due volte di seguito il Pallone d’Oro Sudamericano.
Ma chi era Maradona? Semplicemente, Maradona era tutto: basso, tozzo, a vederlo non era esattamente il dio greco dell’atletica. Ma nel calcio contano i piedi, e con quel sinistro che aveva Diego era capace di fare tutto l’umanamente concepibile e oltre. Era una mezzapunta, ma segnava come un centravanti, perché era troppo facile per lui prendere la palla e piazzarla dove voleva o scartare tutti e andare in porta. Talento, fantasia, mai spacconeria: era molto concreto Maradona, sceglieva sempre la soluzione più facile per andare in gol. Più facile per lui, s’intende. Spesso impossibile per un comune essere umano. Ma del resto Diego era un Dio, il Dio del calcio.
A 18 anni è già nel giro della Nazionale che si appresta a organizzare i Mondiali, ma all’ultimo Cesar Menotti ne fa a meno, considerandolo troppo acerbo. Gli ‘albiceleste’ vincono il torneo, ma subito dopo è impossibile fare a meno di Diego, che si inserisce gradualmente in quella squadra campione del mondo e ben presto ne diventa un leader.
Ai mondiali del 1982 è lui il trascinatore, checché ne dicano i vari Kempes, Bertoni e Passarella: l’Argentina si infrange contro l’Italia futura campione, con Gentile che a discapito del cognome lo marca spietatamente a uomo per tutta la gara. 20 falli ci vogliono per renderlo innocuo, Maradona ha 22 anni e non può vincere da solo. Non ancora.
Si dirà che nessuno può vincere da solo, nel calcio. Ma questo detto sarà lo stesso Diego a smentirlo per sempre, nei Mondiali del 1986.
Dove l’Argentina si presenta discreta ma non forte, possibile outsider ma di quelle che sai che più in là di tanto difficilmente andrà. Il tecnico è Carlos Bilardo, che in patria criticano perché ha rivoluzionato il gioco della Nazionale rinunciando alla tradizionale tecnica mista a furore che ha sempre contraddistinto gli ‘albiceleste’. Lui preferisce un gioco attento e ordinato, cauto in difesa. Lo criticano, ma ha visto giusto: perché lui a Maradona, e allora al resto dei tuoi giocatori puoi anche dire semplicemente di difendere e DIFENDERLO, che tanto Diego alla fine qualcosa inventerà.


Perché nessuno può fermarlo, e infatti nessuno lo farà: nella prima fase la squadra vince e convince, anche perché i rivali dopo pochi minuti si trovano tutti dietro a quel “dieci” e quindi lasciano spazio ai compagni. Nel 3 a 1 alla Corea del Sud i gol li segnano Valdano (2) e Ruggeri. Nel 2 a 0 ai duri bulgari in gol ancora Valdano e Burruchaga. Diego segna nella gara più difficile, l’1 a 1 contro l’Italia campione del mondo in carica, pur marcato strenuamente da Beppe Baresi che però si distrae un attimo e viene infilato. Con Diego è così.
Agli ottavi di finale l’avversario è l’Uruguay, che non sarà più lo squadrone temibile dei primi mondiali ma che sa come ribaltare partite incredibili: si mettono tutti in difesa, raddoppiano, triplicano le marcature su Maradona.
Si dimenticano di Pasculli, futura bandiera in Italia al Lecce, ed è un errore fatale. Pedro Pablo (personaggio da romanzo) non può sbagliare.


Peccato che al turno successivo l’Argentina sia attesa dagli inglesi che hanno strapazzato il Paraguay e che sono tra i favoriti per la vittoria finale: Diego lo sa, come sa che queste sono le partite che cambiano una storia. E in questo match, il 22 giugno del 1986, mostra al mondo chi è davvero entrando nella leggenda. Due reti nel giro di tre minuti: sulla prima anticipa con un fugace tocco di mano l’uscita del portiere avversario Shilton e deposita la palla in rete, con l’arbitro che non accortosi di niente convalida nello stupore dei britannici. E’ la famosa “mano di Dio”, quella che vendica la guerra delle Falklands, quella che stordisce l’Inghilterra.


Che due minuti dopo subisce quello che verrà considerato “il gol più bello della storia dei Mondiali di calcio”: Maradona riceve palla a centrocampo, salta Hoddle e si invola verso la porta avversaria, fa fuori Reid, Sansom, Butcher, Fenwick, finta il tiro e mette a sedere anche il portiere Shilton e segna nel delirio collettivo dei 115.000 spettatori presenti allo stadio Azteca e dei milioni a casa.


Quello è forse il momento in cui Diego, il CT Bilardo e il mondo intero capiscono che si, l’Argentina può tornare campione del mondo. E forse, stavolta, solamente con le proprie forze, non come nel 1978, checché se ne dica… 
In semifinale c’è il Belgio, che è forte in difesa grazie al super-portiere Pfaff, ordinato grazie al CT-santone Guy Thys e pronto a colpire in contropiede. L’Argentina non commette l’errore che hanno fatto le altre rivali di Scifo e compagni, attendono sornioni e poi utilizzano il solito schema: palla a Diego e si vedrà. E si vede: un esterno sinistro in corsa al volo stende Pfaff la prima volta, uno slalom tremendo dove fa fuori quattro difensori lo fa la seconda volta. Maradona è troppo, troppo per tutti.


La finale è contro la Germania Ovest, già finalista nel 1982 e adesso in un momento di grazia: Beckenbauer ricorda la sua marcatura su Bobby Charlton nei Mondiali del 1966 e ora che siede sulla panchina della Nazionale prende il giocatore a lui più simile oggi, Lothar Matthaus, e lo inchioda su Maradona. Ne risulta una marcatura dura e asfissiante, come quella di Gentile quattro anni prima. Diego prova a dribblare, a giocare come sa, ma non riesce.


L’Argentina però non si perde d’animo: avere Maradona al fianco, diranno alcuni compagni anni dopo, ti fa sentire più forte. E infatti passa in vantaggio con Brown e raddoppia con Valdano, servito da Diego in uno dei rari momenti di libertà concessi da Matthaus. 2 a 0, gara finita? No, la Germania Ovest non vuole arrendersi, entra Rudi Voller che prima propizia con un assist l’1 a 2 di Rumenigge, e poi pareggia di testa in seguito a un calcio d’angolo. 
L’Argentina barcolla, ma è solo un momento: il tempo di dare, due minuti dopo il pari tedesco, la palla a Diego. Che si ricorda che il calcio è un gioco ANCHE di squadra, lancia la palla genialmente in un corridoio dove si inserisce Burruchaga, che corre inseguito da un Brehme sfinito, resiste, supera il portiere con un tocco sotto. 3 a 2.


L’Argentina è Campione del Mondo, Diego Armando Maradona è il miglior giocatore del pianeta senza se e senza ma: se Pelé era stato la punta di diamante di una squadra comunque fortissima, Diego ha vinto praticamente da solo, con le sue giocate ma anche con il suo enorme carisma, con la sua capacità di esaltare i compagni.


Perché Maradona non è stato solo il miglior calciatore di sempre. E’ stato anche un grandissimo uomo, con problemi personali gravi che però non hanno danneggiato nessun altro che lui: con i compagni ha sempre avuto un rapporto splendido, è sempre stato umile e disposto ad aiutare, non ha mai scordato le sue origini umili, quelle strade polverose ai confini del mondo. 
E’ stato l’eroe del popolo, per gli argentini e per i napoletani, che non a caso gioirono delle sue vittorie come se fossero loro. Più che un eroe un anti-eroe, sempre dalla parte del più debole, pronto a fare la differenza, ad essere il leader degli emarginati e a capovolgere i pronostici: due Scudetti, una Coppa Italia e una Coppa UEFA con un Napoli che prima di lui non aveva mai vinto niente, il già detto Mondiale con una Nazionale che poggiava solo su di lui.


Se ne andrà dall’Italia nella polvere del doping, della droga, morirà e rinascerà più volte e dividerà sempre gli animi di quei tifosi che non sapranno distinguere tra l’uomo (comunque, a detta di chi scrive, grandissimo) e il campione. Perché per chi ne è capace, di capire che nessuno può giudicare un uomo per scelte personali sbagliate, non ci sono dubbi: Maradona non ha giocato a calcio, MARADONA E’ STATO IL CALCIO, e nessun altro potrà mai prenderne il posto. Nessuno sarà capace di essere grande come è stato lui, leader dentro e fuori dal campo, fuoriclasse, assist-man e goleador divino. Irraggiungibile Diego, che nell’estate del 1986 già diventa leggenda vivente realizzando il suo sogno di bambino, quando avvicinato da un reporter della “TV-verità” in voga all’epoca aveva dichiarato di avere un sogno. Anzi, due. Giocare con la Nazionale e vincere la Coppa del Mondo. In quei cinque minuti di televisione, a pensarci bene, quel bambino di dieci anni stava profetizzando quella che sarebbe stata la storia del calcio. Un calcio che prima di Maradona era una cosa e che dopo di lui è tornato ad esserlo, ma che in quegli anni è stato come il giocattolo di un Dio.
Un Dio con la maglia numero 10.

Fonti: Wikipedia, “Storia dei Mondiali di Calcio” (Bocchio-Tosco), “1896-2010 – Storia del Calcio Italiano” (J. Foot)
 

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