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A TU per TU – Intervista esclusiva a Claudio Gavillucci: “Un arbitro, l’uomo nero. Quei referti…”

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Arbitro. La figura in grado di gestire una gara, una situazione complicata. A volte, però, il merito non basta. Ne sa qualcosa Claudio Gavillucci, ex arbitro di Serie A dismesso dopo aver arbitrato Sampdoria-Napoli: in quell’occasione, l’arbitro sospese momentaneamente la gara per cori razzisti. Da lì il suo calvario, che spiega nel suo libro, “L’uomo Nero”. L’uomo nero, il nemico secondo molti. E proprio partendo da qui, oggi, vogliamo conoscere insieme la sua storia.

                                                                                                         

Perché l’Uomo Nero?

“Nell’immaginario popolare l’uomo nero è sempre stata quella persona cattiva, veniva utilizzata dai genitori per spaventare i bambini. Nel calcio, questa figura è sempre stata l’arbitro, anche perché all’inizio indossava la divisa nera. Ci si doveva difendere dall’arbitro, perché poteva farti perdere una partita, poteva espellerti. Nell’ultimo periodo, poi, il calciatore “nero” è stato quello più fischiato, offeso. L’uomo nero è la figura da cui prendere le distanze. Ho scelto questo titolo perché i temi che tratto nel libro sono mancanza di cultura, di conoscenza e, soprattutto tanta ignoranza. Racconto la vita di un arbitro dal proprio punto di vista, in particolare racconto la mia lotta”.

Con questo libro cosa intendi trasmettere al lettore?

“Quando sono partito con la mia battaglia legale non avevo in mente di scrivere un libro, ero concentrato sul tornare ad allenare. Quando ho perso questa possibilità ho capito che questa era un’occasione che mi si stava presentando davanti: con questa storia voglio evitare che ciò che è accaduto a me possa riaccadere a qualche altro collega. Ho cercato di mettere nero su bianco la mia esperienza non per vendicarmi: deve essere un punto di partenza anche per il sistema calcio, con l’auspicio che possa migliorare”. 

Dismesso con un SMS: com’è andato quel periodo?

“Da Sampdoria-Napoli alla dismissione è passato un mese: il 30 è il giorno del giudizio per gli arbitri. La cosa strana è che io, dopo quella partita, ne ho comunque arbitrata un’altra. Era Udinese-Bologna, e per i friulani era una gara fondamentale per la salvezza. Capisci quindi che non c’è alcuna logica nel mandare a dirigere una partita così a un arbitro che ritieni non adeguato alla categoria. Mi chiedo: se avessi commesso un errore fatale per l’Udinese, cosa avrebbe pensato Pozzo dopo la mia dismissione?”

Pensi troverai mai delle risposte chiare riguardo la tua dismissione?

“Ho cercato tante volte il colloquio, mai ottenuto. Nel libro lascio libero il lettore di farsi una propria idea. Io ho una mia idea, ma non mi piace parlare per supposizioni. Se avessi la possibilità di poter conoscere tutta la storia, ovviamente sarebbe una cosa che vorrei sapere. In questo momento, però, non lo so”.

Nel libro sono stati pubblicati referti arbitrali segreti. Perché?

“Penso che questi referti debbano essere pubblici per gli arbitri. Devono essere conosciuti i criteri usati per valutare un arbitro. I criteri, non i giudizi. Soprattutto chi poi giudica sui giornali, perché l’opinione pubblica può incidere sugli andamenti dell’arbitro: è giusto che chi giudica un arbitro da fuori abbia un parametro di riferimento di come l’AIA valuta. Capire perché un arbitro su un giornale viene giudicato da 3, mentre l’AIA da 8: penso sia utile a tutto il sistema conoscere tutto questo”.

Come funziona e da cosa dipende la valutazione di un arbitro dopo una partita?

“La valutazione ha tanti aspetti che dovrebbero avere un peso specifico. Fino alla mia causa però non erano conosciuti”. 

Quando un arbitro va al Var viene penalizzato. Perché?

“Questa è una mancanza di adeguamento alla valutazione nell’era moderna. Questo strumento è stato dato agli arbitri per migliorare la propria prestazione. Faccio un esempio: è come se si desse a un poliziotto un laser per fare multe, ma poi gli dici che se userà il laser gli verrà decurtato lo stipendio o addirittura licenziato. Se si dà uno strumento così utile al calcio, si deve anche ristrutturare il sistema di valutazione affinché quest’ultimo possa premiare l’arbitro in caso di utilizzo del Var”.

Nell’attuale sistema arbitrale cosa non funziona?

“L’ultima parte del libro la dedico alla politica arbitrale. Ci tengo a precisare che nel libro non critico le persone, ma il sistema. Oggi ci troviamo, a comando di un’associazione piramidale, una sorta di democrazia incompiuta dove non c’è la rappresentanza politica della minoranza. Non c’è garanzia negli organi di giustizia interna: tutto ciò fa sì che, dopo tre mandati, ci troviamo ad avere una figura che, per quanto possa aver fatto bene, si ricandida per la quarta volta. Le regole, scritte dallo stesso Comitato Nazionale di cui lui è a capo, glielo permettono, ma la storia è un’altra: questo è un fallimento politico, perché in 12 anni non sono riusciti a trovare una persona in grado di alternarsi al comando della Federazione”.

Un primo passo per migliorare questo sistema?

“Ristrutturare l’associazione come una società di servizio, perché nel calcio professionistico c’è bisogno che gli arbitri diventano veri e propri professionisti, ci vogliono i fatti. Un contratto da professionisti, garanzie da professionisti che rendono gli arbitri più sereni e autonomi. C’è bisogno poi di una comunicazione più efficace verso l’esterno, un’apertura tra arbitri e componenti federali in grado di instaurare una solida base di scambi culturali per far crescere il nostro Paese. Come in Inghilterra, dove l’arbitro è visto come un professionista che, come calciatori e allenatori, possono sbagliare”.

Tornando indietro, già conoscendo il tuo futuro, rifaresti la stessa cosa in quella partita?

“Assolutamente sì, lo ripeto anche nel libro. Anche nei momenti difficili della mia carriera, quando non c’erano le luci della ribalta ma campi sperduti della profonda Sicilia o Calabria, dove lì rischiavi non un brutto voto ma la pelle, ho sempre detto una cosa: ogni qualvolta avessi avuto paura di fischiare qualcosa che secondo me andava fischiato, avrei appeso il fischietto al chiodo. Sono sicuro che quello che ho fatto è stata la cosa giusta e, anche se il gesto avesse condizionato la mia dismissione, rifarei tutto altre centomila volte”.

 

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