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IL GRILLO PENSANTE – L’Eldorado perduta

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Negli anni 90 il campionato italiano di serie A era l’Eldorado del calcio, l’Olimpo che ogni giovane calciatore aveva ben scolpito nella mente come unico obiettivo da raggiungere per certificare la grandezza del proprio percorso di carriera. Da attico sul mondo dove albergava soltanto l’eccellenza mondiale, in una ventina d’anni siamo sprofondati in un seminterrato intriso di mediocrità e improvvisazione, rabberciati in un torneo di solo passaggio per gli avvenenti calciatori all’interno di un sistema trasudante di problemi di varie forme e dimensioni.

Il motivo principale è l’assenza pressochè totale di evoluzione, con istituzioni invase da dirigenti propensi a sfruttare la comodità delle proprie poltrone anzichè concepire ed applicare riforme convincenti.

Così nel 2017 ci ritroviamo come Presidente della Lega Calcio ancora quel Maurizio Beretta (in carica dal 2010) del quale ci si ricorda più per aver assunto un importante ruolo manageriale in un primario gruppo di credito che per meriti legati alla presidenza dell’organo sportivo; nel Marzo 2011, assunta la carica di manager bancario, si concordò che avrebbe lasciato la Lega Calcio non appena individuato un sostituto credibile, ed appare quantomeno curioso come non sia ancora emerso alcun personaggio meritevole a distanza di 6 anni. Anche la Presidenza FIGC non vive il periodo più idilliaco della propria storia: Carlo Tavecchio, accompagnato da un curriculum macchiato da procedimenti giudiziari emersi su alcune testate giornalistiche, esordì in campagna elettorale con battute fantozziane che sollevarono un polverone mediatico a tinte razziste (provocando la reazione della FIFA che chiese alla FIGC di aprire un’indagine) . Avrebbe dovuto rivoltare il sistema calcio italiano come un calzino ed invece, fatta eccezione per sparute decisioni azzeccate (Serie A con rose ristrette ed Antonio Conte alla guida della nazionale seppur retribuito a peso d’oro) ha badato a galleggiare nell’integrazione coi soliti noti del palazzo.

Con dirigenti compiacenti nel mantenere cristallizzati gli equilibri creati nel corso del tempo, la Serie A italiana si è progressivamente depauperato del proprio patrimonio tecnico. Allo stato attuale mantiene una modesta competitività grazie unicamente alla vendita dei diritti televisivi (circa un miliardo di euro complessivi) che pesa il 61% sul totale dei ricavi, proiettando un’incidenza economica sconosciuta a tutti gli altri campionati europei: nel Regno Unito (dove l’ultimo contratto di vendita si è chiusa alla cifra mostruosa di 2,3 miliardi di euro) impattano per il 53% e nel resto d’Europa la percentuale staziona sotto il 50%. Questo aspetto spaventa la Lega Calcio in previsione della vendita all’asta dei diritti televisivi 2018-21 sulla Serie A in quanto le difficoltà di Mediaset Premium (mai un bilancio positivo dalla sua nascita e con la diatriba legale con Vivendi che ne ostacola pesantemente l’operatività) sgombrano il campo ad un probabile monopolio di Sky; le intenzioni di rilancio della Rai e la proposta embrionale incubata da Discovery non impensieriranno la planetaria piattaforma di Murdoch, intenzionata a dettare le proprie condizioni dopo la precedente e controversa asta (sospetto di favoreggiamento dell’advisor Infront nei confronti di Mediaset Premium). La Lega confida che l’aumento a 4 posti nei gironi di Champions League per le squadre italiane a partire dalla stagione 2017/18 faccia lievitare il prezzo dei diritti legata a tale competizione, ma la partita è tutta da giocare.

Altri aspetti che diminuirebbero sensibilmente la rilevanza dei diritti TV nei fatturati delle squadre di Serie A sarebbe la creazione di nuovi stadi di proprietà, ma le amministrazioni statali che dovrebbero favorire questi processi sono lo specchio fedele degli organi sportivi: inefficienti e iper-burocratizzate. Soltanto Juventus e Udinese hanno raggiunto, dopo iter macchiavellici, l’ambito traguardo di costruzione. Troppo poco per rendere competitivo l’intero sistema, considerando soprattutto che la creazione di uno stadio di proprietà è anche il volano indispensabile per un altro fattore su cui le società italiane hanno un margine di crescita elevatissimo: il marketing. Senza una “casa” nel quale svilupparlo adeguatamente si tarpano le ali alle potenzialità sconfinate che racchiude.

La decadenza del calcio Made in Italy è figlia anche della negligenza mantenuta negli anni verso i settori giovanili; dopo gli insuccessi della nazionale tedesca a cavallo del 2000, in Germania si è puntato dritto sulla valorizzazione costante e progressiva (in perfetto stile teutonico) dei vivai, con un investimento di oltre 300 milioni di euro, la creazione di quasi 400 centri federali distribuiti sul territorio nazionale e l’introduzione di normative di Federcalcio e Lega propulsive ad investimenti delle società nei settori giovanili (che ha prodotto in 10 anni investimenti per quasi 1 miliardo di euro). I risultati sono stati evidenti: boom nel ranking Uefa, quarto posto in Champions League strappato all’Italia, finale di Champions tutta tedesca (Bayern Monaco – Borussia Dortmunt) nel 2013, trionfo mondiale a Rio De Janeiro nel 2014. Criterio e programmazione producono sempre risultati nel medio-lungo periodo, ma in Italia questi aspetti latitano da troppo tempo. Solo Atalanta, Udinese e poche altre realtà sembrano mosche bianche nella scelta di investire e valorizzare le proprie forze giovanili.

 

Il Bologna è all’inizio di questo percorso; la lungimiranza di Joey Saputo da un lato può un po’ innervosire per una generalizzata e tangibile impazienza di potersi elevare in tempi più contenuti, ma analizzando con lucidità gli obiettivi e le impervie vie per raggiungerli è assolutamente da abbracciare senza condizionamenti. Si possono esprimere giudizi più o meno positivi perchè un’autocritica sapiente è indice di volontà di crescita, ma sempre con la piena consapevolezza che soltanto costruendo fondamenta forti nel tempo necessario si potrà edificare una nuova ed inespugnabile fortezza.

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