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Il Metodo Vincente #2: L’etica del rifiuto

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Quella sera, Vittorio cestinò almeno una decina di fogli. Ogni approccio alla scrittura portava con sé un’onda di malinconia, e ogni parola sembrava inadatta al contesto.

A dire il vero, non avrebbe nemmeno voluto scriverlo, quel pezzo. Giulio De Benedetti, direttore de La Stampa da meno di un anno, però, spingeva affinché Pozzo, collaboratore del quotidiano, tributasse i ragazzi che aveva avuto modo di allenare con un encomio pubblico, un tributo ai caduti come già accaduto nelle cronache di guerra. E per farlo, si sbilanciò a tal punto da concedergli un onore immenso: quello della firma a piè di articolo.
La nuova linea editoriale, infatti, specie per i trafiletti di cronaca o sport, imponeva un racconto dei fatti quasi asettico, privo di emozioni personali. Uno strappo totale alla regola, in questa situazione, era ritenuto doveroso.

Da una parte, il senso del dovere, la ferrea sottomissione alle regole che aveva già accettato, di buon cuore, al fronte. Dall’altra, l’idea di farsi da parte, di non lasciare che il suo coinvolgimento sin troppo diretto alla circostanza avversa potesse portare ad uno scritto fuorviante.

Un po’ per l’indecisione, un po’ per effetto del Bourbon, Vittorio Pozzo si sentì traballante. Come avrebbe potuto diniegare l’offerta, pur conservando la sua volontà di assecondare il potere? Avrebbe potuto dire “no grazie“, senza sentirsi disertore? Ma soprattutto, si chiese, esiste un’etica del rifiuto?

 

La sua riflessione, in particolare, si concentrò sugli eventi passati. E, con la velocità di un dardo scoccato dalla sua balestra, pur offuscata dai fumi dell’alcol la sua mente volò al Giovanni Berta di Firenze, il 13 Settembre del 1931.

Quel giorno, in qualità di allenatore della Nazionale italiana di calcio, il commissario tecnico sedeva sugli spalti del nuovissimo impianto, fortemente voluto dal presidente della società gigliata, il marchese Luigi Ridolfi, sotto l’abile regia del romagnolo Benito Mussolini. 

L’ideale fascista, seguito dalla prima ora dallo stesso Ridolfi, prevedeva la ristrutturazione e/o costruzione di numerose strutture sportive, affidando i lavori ai più famosi architetti dell’epoca. Pier Luigi Nervi, designato all’opera, regala alla città uno stadio a pianta semicircolare, con una delle due tribune fortemente schiacciata. Neppure troppo casualmente, la forma impressa andava a ricreare una D, ossequio al direttore, nemmeno troppo esterno, ai lavori. O forse, sarebbe meglio chiamarlo Direttore, date le manie di grandezza.

In tribuna d’onore, non mancavano i personaggi celebri. In particolare, Pozzo era seduto tra Ridolfi e il romagnolo di turno. No, non si trattava di Mussolini, assente per impegni istituzionali e sostituito dal conte Giuseppe Della Gherardesca, podestà di Firenze e massima autorità cittadina, ma di un altro, influentissimo corregionale, il presidente della F.I.G.C., nonché del CONI e sottosegretario agli interni, Leandro Arpinati.

Nativo di Civitella, comune del forlivese, Arpinati era già stato podestà della città di Bologna e fiero sostenitore della squadra cittadina, pur conservando, in seno agli incarichi rivestiti, la propria imparzialità decisionale. Pochi mesi dopo la sua elezione a presidente del massimo organo calcistico nazionale, infatti, decise di non assegnare alla seconda classificata lo scudetto del 1927, vinto sul campo dal Torino e in seguito revocato a causa del Caso Allemandi, che prende il nome dal giocatore della Juventus avvicinato, a fini corruttivi, dai dirigenti granata. Penalizzato il Toro, il titolo sarebbe spettato proprio al suo Bologna, ma l’indole del tifoso, per una volta, lasciò spazio alla correttezza del ruolo autoritario.

Fu lo stesso presidente federale a promuovere la costituzione, a partire dal 1929, di una Serie A a girone unico, nonché a nominare personalmente Pozzo quale selezionatore della rappresentativa nazionale. E i risultati non mancarono: appena un anno dopo, l’Italia si aggiudicò la Coppa Internazionale, competizione disputata dalle maggiori nazionali mitteleuropee. Il grande disegno del regime prevedeva la necessità di fare il bis nel biennio successivo, al fine di avere quante più credenziali possibili per poter organizzare la prima edizione europea dei Mondiali, nel 1934.

L’amichevole inaugurale del Berta, giocata tra Fiorentina e Admira Vienna, avrebbe dato a Pozzo l’occasione di osservare alcuni giocatori viola in vista dalla partita tra Italia e Cecoslovacchia, valida per la seconda edizione del trofeo, che si sarebbe tenuta un mese dopo a Roma, presso lo stadio Nazionale del Partito Fascista. In particolare, Ridolfi spingeva per una convocazione dell’oriundo Petrone, appena prelevato dal Nacional. E, sin dal riscaldamento, ne tesseva le lodi, tentando di convincere il ct.

Uno scroscio di applausi accompagnò le squadre all’ingresso sul terreno di gioco, mentre il pilota Vasco Magrini, direttamente dal suo aeroplano, lasciò piovere il pallone all’interno del cerchio di centrocampo. Le due squadre, giunte di fronte alla tribuna delle autorità, si allinearono per tributare i presenti con il classico saluto a braccio alzato. I decibel prodotti dal battito di mani aumentarono a dismisura, per poi subire un brusco stop da un momento all’altro, improvvisamente. Solo uno strano brusio, adesso, pervadeva gli spalti.

Una riserva viola, infatti, rimase con gli arti superiori stesi lungo il corpo, quasi a voler sfidare i gerarchi posti specularmente rispetto a lui. Per evitare che la stampa desse troppo peso all’accaduto, fu lo stesso Ridolfi a far ripartire il turbinio degli applausi. Arpinati, Della Gherardesca, lo stesso Pozzo, lo seguirono a ruota. E con loro, il resto dello stadio.

Nessuno, sui quotidiani datati 14 Settembre, parlò del gesto dissidente del faentino Bruno Neri, antifascista convinto. Colui che, su un campo da calcio, aveva dato un’etica al rifiuto.

La sua mente si rasserenò, al solo pensiero che sì, qualcuno era riuscito a disobbedire, apparentemente senza conseguenze. E così era stato, in quanto Neri continuò a giocare con la maglia della Fiorentina. Ma nonostante tutto, fu l’onore del soldato a prevalere.

 

 “Il Torino non c’è più. Scomparso, bruciato, polverizzato. Una squadra che muore, tutta assieme, al completo, con tutti i suoi titolari, colle sue riserve, coi suoi tecnici, coi suoi dirigenti. Coi suoi commentatori”.

 

(CONTINUA)

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