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IL GRILLO PENSANTE – L’imprescindibile Erik

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Il territorio del Cile abbraccia geograficamente per latitudine oltre metà del Sud America, quasi a simboleggiare come negli ultimi anni le bramose mani (e piedi) della Roja si siano allungate per accaparrarsi il dominio calcistico del continente. Nell’estate 2015, proprio all’inizio del biennio dorato della nazionale cilena, un Bologna trionfante e stremato per la ritrovata Serie A all’ultima curva non rimase indifferente agli eventi oltreoceano; anche i rossoblu aspiravano ad un gioiello grezzo proveniente dalla nuova insospettabile fucina sudamericana, e la scelta cadde sul giovane centrocampista Erik Pulgar, strappato alla concorrenza della Fiorentina per non pochi spiccioli (circa 2,5 milioni di euro) e con degne credenziali: proveniente dalla storica Universidad Catolica, il giovane classe ‘94 aveva appena terminato un campionato da 37 presenze e 7 reti. A soltanto 21 anni già titolare inamovibile oltre che pericoloso incursore, speranze ed aspettative puntavano decisamente verso l’alto.

Il primo anno bolognese fu caratterizzato da un avvio di campionato, sotto la guida di Delio Rossi, in cui riuscì ad aggiudicarsi con buona continuità una maglia da titolare, ma dopo l’intro da protagonista fu degradato a comprimario finendo per giocare soltanto a sprazzi anche con il subentrante Donadoni. Non era ancora nitidamente comprensibile il valore del giocatore, era come guardarlo da dietro un vetro appannato che impediva di valutare quali fossero le sue reali potenzialità e se si trovasse nel vortice del classico “periodo di adattamento” oppure se il calcio italiano fosse pane troppo duro per i suoi denti.

Il secondo anno fu controverso: il giovane Erik – insolito nome vichingo per un sudamericano, ma del popolo nordico incarna senza dubbio il temperamento – era fin da subito attore presentissimo nelle scenografie rossoblu tuttavia calamitando giudizi poco lusinghieri da parte della tifoseria che lo accusava di produrre quantità industriali di errori scolastici e ingenuità evitabili. Le critiche non erano totalmente campate in aria in quanto, oltre a peccare un po’ in precisione, il suo vigore agonistico sfociava troppo spesso in interventi fallosi irruenti che produssero un conto piuttosto salato anche in termini disciplinari (in particolare 2 sanguinosi cartellini rossi nelle trasferte di Udine e Palermo); esaminando il disegno della stagione nel suo complesso, col senno di poi risulta evidente che Donadoni aveva innescato sottotraccia un suo intimo progetto: trasformare Pulgar in un mediano metodista da inserire in un Bologna rimasto orfano del fuggitivo Diawara, con la consapevolezza che il cileno necessitava di un periodo di rodaggio per poter prendere le misure ad un’area di campo che interpretava in tutt’altra ottica fino a poco tempo prima.

L’estate di calciomercato appena trascorsa ha visto la pedina cilena spostata virtualmente di continuo sullo scacchiere rossoblu: quasi data per scontato l’arrivo di un mediano di spessore che lo avrebbe confinato in panchina, poi con le valigie pronte per sfoltire il reparto ed infine, dopo tanto girovagare mediatico, ancora ben piantato sotto le Due Torri a godersi tortellini e mortadella.

Alla terza giornata del campionato in corso si è verificata con ogni probabilità il punto di svolta della carriera bolognese di Erik Pulgar: battibecco con Verdi, attualmente intoccabile per qualsiasi tifoso rossoblu, al quale strappò la battuta di una punizione da ghiottissima posizione sullo 0-1 ospite. Pallone sparato indecorosamente sul Colle dell’Osservanza, fischi di un Dall’Ara indispettito dall’occasione gettata alle ortiche e successiva perdita totale del senno da parte del giovane sudamericano che, con atteggiamento irriverente, commise una gaffe colossale e il Napoli giustiziò il Bologna. Notte sul capoluogo emiliano, tenebre ancora più fitte su Pulgar. Condotta oggettivamente condannabile la sua, aggravata da successivo strascico social e con gran parte della tifoseria che auspicò spietatamente la segregazione forzata in panchina. Per sbrogliare la matassa fu fondamentale la ferma presa di posizione di Donadoni: dopo avergli propinato qualche aspra paternale lo avvolse nella sua fiducia, non lo sconfessò, confermò il suo status nella squadra. Per lui Erik è un sofisticato dipinto impressionista: confuso e incomprensibile per chi lo sfiora con un’occhiata fugace ma colmo di meraviglie per chi mastica la materia ed è più attento osservatore. Chi frequenta assiduamente lo stadio (è può quindi permettersi di leggere in tutte le pieghe delle partite) non può restare indifferente ai tanti valori che mette in campo: corre come un keniano, disturba costantemente le linee di passaggio avversarie, ha un acume tattico invidiabile, incrocia le armi senza alcun timore reverenziale e non molla mai neppure un centimetro. Vero, non sempre è chirurgico e talvolta commette errori banali, ma nella quantità di espressioni positive generosamente elargite è fisiologico che compaia qualche macchia. Chi più lavora ha più probabilità di commettere errori.

 

Dopo gli strafalcioni col Napoli un giocatore senza spina dorsale si sarebbe sciolto miseramente come neve al sole; invece l’ormai imprescindibile Erik (da quel momento sempre titolare e mai sostituito) ha chinato la testa ed ha preso concretamente in mano la squadra, trasmettendo nitidamente per la prima volta la sensazione di salire la scaletta del direttore d’orchestra per dirigere le danze e di trovarsi perfettamente a proprio agio in questa veste. Sembra addirittura saggio, è il solito combattente con più sciabola che fioretto ma non si getta scriteriatamente alla ricerca di cartellini. Ad Ottobre, in un frangente avaro di soddisfazioni per la squadra, è stato eletto MVP del mese tra i giocatori del Bologna…riconoscimento puramente simbolico, ma significativo per il tortuoso percorso del cileno: sull’orlo del precipizio poteva cadere rovinosamente, invece ha guardato avanti e si è preso con carattere una squadra ed una città che adesso sente confidenzialmente più sue.

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