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Forcing – Pesaola: “Oggi è un’impresa raggiungere i piani alti della classifica”

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Panorama


Bruno Pesaola ha sempre sostenuto di essere nato erroneamente in Argentina, a Buenos Aires, da padre marchigiano e madre di La Coruna: un melting pot in persona mica male. E da che mondo e mondo, quelli “strani”, non sono anche coloro che dipingono le sfaccettature degli anni in bianco e nero?
Nato povero, approdato (nel vero senso della parola) a Roma, torna in Argentina, Piola lo chiama a Novara, diventa idolo a Napoli e – nello stesso periodo – veste la maglia azzurra dell’Italia, finisce la carriera perché si rompe un piede. Oh, finalmente è tranquillo. Anzi, no: prosegue da allenatore, partendo dalla Scafatese e arrivando a Napoli pochi mesi dopo. Tra le tante, anche Fiorentina, Bologna, poker, sigarette e il cappotto di cammello. Un ex…indaffarato.

Petisso, lei è diventato grande facendo tutto da solo.
“Le dico solo che mio fratello, sette anni più grande me, era una grande promessa. Dopo una grave lesione che ha avuto facendo il militare, posso dire che ha puntato su di me, portandomi – da giovanissimo – al campetto per imparare a usare il sinistro. A 14 anni ho fatto un provino col River Plate, dove cercavano proprio uno da mettere su quella fascia. Posso sicuramente dire che, fin da subito, ‘mi sono creato’”

Dopo due stagioni a Roma, ci ha provato, a tornare in Argentina. Piola prima lo ha convinto ad accettare il Novara, Lauro poi – insieme a Jeppson e Vitali – lo ha portato a Napoli.
“In realtà, è stata fondamentale mia moglie Ornella, siccome ha praticamente scelto lei. In Campania ho trascorso otto anni molto belli, soprattutto grazie al presidente: organizzavamo partite di briscola, mille lire alla volta, e io e Comaschi lo facevamo sempre vincere. Ho giocato 240 partite, segnando 27 gol: un disastro, per un attaccante come me! C’è da dire, però, che mi sono spostato a fare la mezz’ala, ruolo dove c’era più bisogno”

Nel 1959-60, Amadei, il nuovo allenatore, la ha cacciato via. Così è andato al Genoa, poi alla Scafatese. E lì…
“…sono diventato allenatore. In pochi mesi, passo dalla IV serie della Scafatese alla Serie B, di nuovo, col Napoli: che salto! Abbiamo vinto la Coppa Italia, rimanendo ancora oggi l’unica squadra della serie cadetta a riuscirci, con un mio inganno. Il Napoli era in un girone, i bianconeri nell’altro ed eravamo a pari punti. All’intervallo stavamo perdendo 1-0 a Ginevra e ho fatto annunciare che la Juve fosse in vantaggio, motivando così i miei ragazzi. Risultato finale: la Juve, alla fine, sconfitta, mentre noi abbiamo vinto 1-3. Quante sigarette ho fumato in quegli anni…”

Gli annali dicono che andasse per le 40 a partita! Però se le sarà gustate tutte, se alla fine fece anche quel mezzo miracolo…
“Cosa intende? Sivori e Altafini? Basti sapere che ho detto loro ‘ragazzi, questa è una vacca con tre tette: io mi prendo la tetta più piccola, ma cerchiamo di non litigare’”

Abbandonata Napoli, c’è stato un uomo che le ha cambiato la vita: Carlo Montanari.
“Un dirigente col quale ho condiviso gioie e dolori. Le prime perché a Firenze ho vinto il campionato nel 1968/1969 e a Bologna la Coppa Italia del 1974; le seconde per due motivi particolari…”

Ormai che c’è, sputi il rospo!
“Uno riguarda un Bologna-Napoli, quando ero ancora un ‘ciuccio’, ma che saprete tutti: il Bologna era invischiato nei bassifondi della classifica, il Napoli era in quella parte di classifica dove non si soffre e non si sogna. Un pareggio andava bene a entrambe le squadre e lo 0-0 sembrava scolpito nella pietra. Poi accadde un fatto: fallo su un mio giocatore sulla fascia destra d’attacco, sotto i Distinti. Medico e massaggiatore vanno a controllare, io dico di fare con calma perché non ho il cambio pronto (in realtà mi andava bene far trascorrere il tempo). Mentre il massaggiatore è ancora in campo, i miei battono la punizione: lungo spiovente in area, Savoldi stacca di testa e infila lo 0-1. Sembrava fosse la finale di Coppa dei Campioni, esultò come un pazzo; io mi alzai e…. lo mandai a quel paese: avevo dato un dispiacere a Conti, Montanari, Cervellati e tutti gli amici che trepidavano per il rosso e il blu. Per fortuna il Bologna si salvò lo stesso, altrimenti sai il magone?
L’altra, invece, era quando doveva licenziarmi dal Bologna: il presidente Conti – su pressione di alcuni consiglieri – decise di esonerarmi. Però non lo fece personalmente, chiese al direttore sportivo, Montanari, di comunicarmelo. Quella sera eravamo a casa sua, in Via Marconi (abitavamo uno di fronte all’altro), come capitava tutte le settimane, per cenare assieme a qualche amico e poi giocare a Bestia. Il ragioniere era nervosissimo, non riusciva a dirmi che cosa aveva deciso Conti. Girava nervosamente intorno alla tavola, inciampò, cadde e si tagliò sotto il mento perdendo litri di sangue. Morale della favola: quella sera fu lui ad aver bisogno di aiuto, non io; il Bologna venne affidato a Perani, che mi faceva la guerra da tempo, ma per salvarlo fu necessario cacciare anche lui e affidare la squadra a Cesarino Cervellati, un amico oltre che il mio secondo”

Con il Bologna, “solo” una Coppa Italia. Perché è tanto difficile raggiungere i piani nobili della classifica?
“Non è mai stato facile, neanche ai miei tempi, ma oggi è davvero un’impresa. Le squadre di vertice sono sempre le stesse, la classifica è sclerotizzata. L’eccezione, da applaudire, è l’Atalanta, che tanti anni fa ha imboccato una strada e non l’ha mai abbandonata: proprietà costante, investimenti sul settore giovanile, costruzione di uno “spirito bergamasco” sin dal vivaio. Il Bologna, invece…”.

Il Bologna invece da un po’ ha smesso di investire sui giovani e a livello presidenziale ha passato dei brutti quarti d’ora. Ai suoi tempi come andavano le cose?
“Il mio presidente era Luciano Conti: il calcio lo divertiva, ma doveva rimanere un hobby, quindi niente spese pazze. Anzi, appena possibile si vendeva il pezzo pregiato e col ricavato si cercava di tirare avanti inventandosi qualcosa. I tifosi arrivarono a contestarlo pesantemente, tant’è vero che la Polizia decise di piazzare un servizio di sorveglianza sotto casa sua e lui si ruppe le scatole: dopodiché mi sembra che i tifosi si siano divertiti addirittura di meno…”

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