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Tutto calcio che Cola #40: Juan Riquelme, l’ultimo “Diez” – 06 Gen

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Per chi ama il calcio moderno, dove gli idoli sono atleti completi e dal grandissimo valore “social”, probabilmente è stato solo uno dei tanti. Un giocatore pieno di difetti e con qualche innegabile pregio. Per chi ama il calcio inteso come senso artistico, invece, Juan Román Riquelme è stato uno dei più grandi, e con il suo ormai prossimo ritiro dal calcio che conta la sensazione è che il fútbol non sarà più lo stesso.

 

Artista straordinario, Riquelme ha segnato a suo modo un calcio che ai tempi dei suoi esordi era ormai già da parecchio tempo molto fisico e che si è sempre più spostato in quella direzione. Ultimo rappresentante di un modo di intendere il gioco del pallone che, pure in Argentina, era stato soppiantato già a partire dal Mondiale del 1958 in Svezia: proprio mentre gli acerrimi rivali del Brasile diventavano per la prima volta campioni del mondo, infatti, gli argentini rimediavano una delle peggiori debacle della loro storia. La squadra, che non aveva partecipato alle edizioni del ’50 e del ’54 per problemi economici, si era presentata in Svezia convinta di avere una squadra capace di vincere il torneo iridato e forte di signori giocatori come Norberto Ménendez e Omar Corbatta in attacco e il leggendario Amadeo Carrizo tra i pali. Venivano, gli albi-celeste, da anni di uno splendido isolazionismo che aveva favorito lo sviluppo di una scuola calcistica chiamata “Nuestra”, che esaltava il tocco di palla e il numero fine a se stesso più che la ricerca prioritaria del risultato e della concretezza.
Erano artisti.

 

Nella partita decisiva persero 6 a 1 contro la Cecoslovacchia, compagine senz’altro peggio attrezzata tecnicamente ma molto più avvezza a giocare il calcio per come andrebbe giocato. L’Argentina passò ad un calcio fisico ed atletico, molto aggressivo. Arrivarono i trionfi nelle Coppe Intercontinentali, quindi una Nazionale molto più competitiva e quadrata che vinse finalmente i Mondiali del 1978. La “Nuestra” finì nel dimenticatoio, lasciata alle strade polverose dove ovviamente i risultati passano in secondo piano rispetto ai tecnicismi che servono per farsi notare.

Lungo cappello per spiegare chi sia stato Juan Román Riquelme: l’ultimo “Diez”, l’ultimo rappresentante della “Nuestra”. Così fuori contesto da spaccare il mondo degli appassionati di calcio. O lo ami o lo disprezzi. Lento, ma di quella lentezza che in realtà nasconde una grandissima velocità mentale: Manuel Pellegrini, altra figura romantica come sanno essere molti allenatori argentini, diceva che “è un giocatore straordinario, che pensa tre giocate alla volta e sceglie sempre la migliore.” In campo poteva sembrare svogliato, non portato a difendere e nemmeno capace di segnare così tanto. Ma la verità è che, quando ha potuto esprimere il suo calcio, Riquelme è stato immenso, catalizzando sui suoi piedi l’intera fase offensiva della sua squadra, esaltando al massimo l’arte dell’assist, tipica della “Nuestra” e del calcio di un tempo, quello dove la giocata per il pubblico contava quasi quanto un gol. E del resto cosa conta correre quando sai far correre la palla?

Per questo ho amato Juan Román Riquelme, con quell’aria da pistolero stanco e quelle movenze da ballerino di tango, capace di trasformare ogni pallone in qualcosa di magico. Ha fatto miracoli nel Boca Juniors, la sua unica vera squadra. Naturale che abbia fallito in Europa, in un Barcelona che doveva diventare ancora uno squadrone e che era allenato da un tecnico, Van Gaal, che era quanto di più agli antipodi dal “fútbol bailado” di Riquelme. Lo confinava all’ala, le rare volte che lo faceva giocare. Come si faceva, in un tempo in cui non c’erano le sostituzioni, con chi si infortunava. Nel senso di “stai lì, dove puoi fare meno danni possibili”. A intermittenza fu enorme al Villareal, dove ancora lo ricordano come uno dei più grandi, inserito nel “Submarino Amarillo” migliore della storia.

 

Non ha saputo – o forse non ha voluto – migliorare i suoi difetti, diventare un calciatore completo, forte come tanti. Mi piace pensare che abbia provato quasi piacere nel suo rimanere se stesso, nel difendere la sua unicità, come uno di quei dischi sperimentali che sono geniali ma di non facile comprensione. E non ha saputo vendersi, vendere la sua immagine: lo chiamavano “il Muto”, perché sorrideva poco e parlava meno, preferendo avere quell’aria quasi tragica, da western di Sergio Leone, il tipo che sembra uno qualsiasi e poi parla con i fatti. Lo paragonavano a Zidane: stessa posizione in campo, stessa nulla capacità difensiva, stessa enorme classe. Per qualcuno il paragone è blasfemo: per la maggior parte perché Zidane ha vinto la Coppa del Mondo, il Pallone d’Oro, ha fatto magie con Juventus e Real Madrid. Per altri, una piccola minoranza, il paragone non ci sta perché troppo più enorme era la classe di Riquelme. Di questa minoranza fa parte anche lo stesso Zizou, calciatore straordinario e persona ancora migliore, che giocò la sua ultima gara proprio contro Riquelme dicendo che era stato un onore. Stima ricambiata: “El Mudo”, quando gli veniva fatta notare la sua scarsa capacità comunicativa, diceva che non aveva mai visto Zidane ridere in campo, eppure era il più grande giocatore della sua generazione.

Punti di vista, il bello del calcio. La bellezza di questo calciatore, che dopo un breve periodo nell’Argentinos Juniors – dove tutto era cominciato – si appresta a continuare la carriera nel campionato americano, dove probabilmente vestirà la maglia dei Montreal Impact di Joey Saputo, sta proprio in questo. Nell’aver saputo regalare in tutta la sua carriera un calcio diverso a palati diversi, nell’essere stato unico: lento, pigro, forse un poco presuntuoso, ma con piedi magici, capace di fare numeri come pochissimi al mondo. E sbaglia chi pensa che le sue ormai prossime 37 primavere lo porteranno ad essere una specie di attrazione da circo in un campionato dimenticato dal dio del pallone: Riquelme sarà sempre Riquelme, non correrà come sempre, dispenserà magie incredibili.
Come sempre.
Con la sfrontatezza di chi non ha mai voluto cambiare, perché del resto il calcio di strada ti insegna che se sai correre tanto e picchiare di più è perché in fondo, con la palla tra i piedi, non ci sai mica tanto fare. E il calcio di strada si sa, in Argentina è legge.

 

E comunque sia: 5 campionati argentini, 3 Coppe Libertadores, una Intercontinentale, un Mondiale under-20 e medaglia d’oro alle Olimpiadi. Risultati davvero niente male per un artista rimasto sempre fedele a se stesso e al suo tipo di calcio, come un vecchio mago che odia la tecnologia ma che è ancora capace di vecchi trucchi tremendamente efficaci per gli occhi più attenti e appassionati. Per me Juan Román è stato il calcio, e chi non lo ha capito può solo ricevere gli sguardi compassionevoli che merita chi si è perso qualcosa.

Qualcosa di grande e che non è riuscito a capire.

A modo suo grande, grandissimo, Riquelme. L’ultimo numero 10.

“Chiunque, dovendo andare da un punto A a un punto B, sceglierebbe un’autostrada a quattro corsie impiegando due ore. Chiunque tranne Riquelme, che ce ne metterebbe sei utilizzando una tortuosa strada panoramica, ma riempiendovi gli occhi di paesaggi meravigliosi.”
(Jorge Valdano)

 

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